EDIZIONE AGGIORNATA AL 2013
CON LE MODIFICHE DELLA LEGGE n. 220 del 11/12/2012

1)ANALISI STORICA DEL FENOMENO “CONDOMINIO”
Di condominio il Codice Civile del 1865 non parlava, ma il fenomeno era già conosciuto.
All’interno del Libro II, Titolo III, Capo II, nella disciplina delle servitù prediali (dei muri, edifizi e fossi comuni) erano contenuti alcuni articoli che si riferivano ai diritti sulle parti strutturali di un caseggiato, con una descrizione molto simile a quella degli articoli del codice attuale afferenti il condominio.
All’art. 562 venivano enunciate le parti solitamente a servizio dei piani o porzioni di piano, all’art. 563 veniva disciplinato il rifacimento dei tetti e dei lastrici solari (il titolare del calpestio era onerato per la quarta parte della spesa) e, all’art. 564, veniva disciplinata la soprelevazione. Come si può agevolmente ricavare, mancava  totalmente una disciplina per l’amministrazione; il caseggiato veniva considerato alla stregua di ogni altra proprietà fondiaria con le relative pertinenze (muri, fossi ecc.) e, soprattutto, mancava qualsivoglia riferimento a maggioranze e ad organi deliberanti. Soltanto nella comunione (Titolo IV) si ammetteva che la maggioranza (…i voti rappresentano maggiore entità degli interessi…intendendosi con ciò maggioranze di quote) potesse imporre le decisioni relative all’amministrazione alla minoranza, ma non vi era, nella normativa dedicata agli edifici, (non si parlava ancora di condominio), quel rinvio alle norme sulla comunione che il nostro codice attuale rinviene all’art. 1139, anzi, la disciplina della comunione era inserita in un titolo successivo. Questo implicava, di fatto, l’impossibilità di decidere qualsivoglia questione comune senza che sussistesse l’unanimità dei consensi, il che portava, di conseguenza, a che, in presenza di necessità, si dovesse sempre ricorrere al giudice. E’ comprensibile ciò, tenendo conto che il vecchio codice, di derivazione napoleonica, individuava nella proprietà e nei diritti reali il fulcro del diritto soggettivo assoluto, ovvero quella situazione soggettiva intangibile che corrispondeva alla libertà del singolo negli stati liberali del tempo e che non ammetteva alcuna forma di limite (a parte la sfera soggettiva degli altri singoli) tranne che nel caso del contratto, anch’essa espressione di libertà di autodeterminarsi e autolimitarsi negozialmente. Da quanto sopra, pertanto, si può affermare che il condominio sia nato dalle servitù per destinazione del padre di famiglia (art. 529 del codice del 1865 ma ancora presenti all’art. 1062 del codice attuale).
Le servitù per destinazione del padre di famiglia sorgevano, e sorgono, allorché fondi
divisi fossero in precedenza uniti e lo stesso proprietario pose o lasciò le cose nello stato in cui risulta la servitù; partendo pertanto dal presupposto che il costruttore sia una persona unica (persona fisica, società o comunione), una volta cedute le singole unità, questi avrà lasciato le parti accessorie (muri, tetti, scale ecc.) a destinazione dei fondi degli acquirenti. In questo modo nacque quello che è definito attualmente condominio, come insieme di servitù concorrenti e, come tali, disciplinate dal codice del tempo, alla stregua dei muri di confine, di contenimento, dei fossi ecc. nella proprietà rurale, senza alcuna disciplina autonoma inerente un’amministrazione collettiva.
Fu con l’urbanesimo e con la conseguente espansione della piccola proprietà che il
problema condominio cominciò a presentare le caratteristiche di un problema sociale.
Gli edifici, dapprima di singole famiglie, venivano ceduti, di volta in volta, di
appartamento in appartamento, ad acquirenti che diventavano titolari di un diritto
soggettivo di proprietà, con facoltà assoluta di amministrare il loro bene. A questo
punto, i limiti di una normativa che imponeva l’unanimità per ogni decisione assunse un
peso rilevante, e i proprietari originari, prima di iniziare l’alienazione delle singole

2) unità, cominciarono a prevenire i futuri problemi di amministrazione predisponendo
regolamenti che disciplinassero la conduzione del caseggiato. Detti regolamenti
venivano trascritti agli Uffici delle Ipoteche (attuali Conservatorie) e venivano inserite,
nei singoli atti di acquisto, le clausole di accettazione, in modo da vincolare i singoli
acquirenti al rispetto di quanto stabilito dal regolamento. Proprio da questi regolamenti,
divenuti col tempo per lo più uniformi, adottati in particolar modo a Genova, fu ricavata
la prima legge sul condominio.
La prima normativa effettiva sul condominio è data dal R.D.n 56 del 15/1/34 “disciplina
dei rapporti di condominio sulle case” , convertito, con alcune modifiche, nella legge n.
8 del 10/1/35. La disciplina appariva, in alcuni punti, assai più completa di quella
attuale. Spariva ogni riferimento alle servitù, per evidenziarsi una maggiore vicinanza
alla comunione. La parte riguardante i diritti dei singoli era particolarmente curata ma,
soprattutto, all’art. 5, era chiaramente enunciata l’applicazione del principio del cd.
condominio parziale, ancora oggi oggetto di contrasto tra pronunzie della stessa seconda
sezione della Suprema Corte. La norma stabiliva che la proprietà delle parti elencate,
poteva non essere comune a tutti i condomini e che, al fine dell’attribuzione del diritto
e della sua estensione, potesse valere, in mancanza di titolo, la natura e la destinazione
della cosa, riprendendo chiaramente il principio antecedente delle servitù per
destinazione. Altra norma di evidente rilevanza era l’art. 10; questo enunciato ricalcava
il nostro articolo 1102 (uso dei partecipanti alla comunione) stabilendo esattamente i
limiti ai diritti sulle parti comuni. Erano contenuti principi (che solo attualmente la
Suprema Corte sembra abbia riconosciuto esistere nel condominio) ovvero: diritto dei
singoli ad utilizzare le parti comuni purché non venga leso l’interesse della comunione e
non venga impedito il concorrente uso agli altri, e la possibilità di introdurre innovazioni
a spese del singolo purché non venga modificata la destinazione delle parti comuni o non
ne sia reso più incomodo l’utilizzo. All’art. 14 si rinvenivano i principi di ripartizione
delle spese: veniva individuato il principio proporzionale (oggi millesimale) ma anche il
principio che se una spesa fosse stata relativa ad un servizio divisibile, questa sarebbe
stata divisa in proporzione al relativo utilizzo (principio del consumo, oggi non
espressamente contemplato). Veniva comunque riconosciuto il principio secondo il
quale, in presenza di più tetti, cortili, terrazze e scale, le relative spese avrebbero
dovuto permanere a carico dei fruitori.
La parte relativa all’amministrazione individuava gli organi (nominandoli tali)
nell’amministratore e nell’assemblea; era previsto, inoltre, un consiglio avente funzione
consultiva e di controllo dell’amministratore e di “ufficio di conciliazione per le
vertenze tra condomini”. La legge individuava le funzioni dell’assemblea e le
maggioranze (secondo il principio binario attuale). Riguardo al regolamento di
condominio era previsto un vero e proprio procedimento di approvazione.
Come si è potuto constatare da questo excursus storico, la legge sul condominio è nata
dalle servitù e dai loro principi, è passata attraverso una fase contrattuale, prima di
essere plasmata in una normativa, poi modificata ed inserita nel codice civile del 1942.
Proprio questa diversificazione delle fonti ne rende inopportuno l’esame articolo per
articolo, atteso che alcune norme attuali sono di evidente derivazione contrattuale
(elencazioni ecc.) altre provengono dall’esperienza ed altre ancora sono state ricavate

3) da principi da parte del legislatore di due diversi periodi.
Questo lavoro tenterà quindi non tanto di commentare i singoli articoli, quanto di fare
coincidere i vecchi principi con i filoni giurisprudenziali attuali, in modo tale da fornire
una carta di principi che serva d’aiuto a coloro che lavorano nel campo.
La Legge
Come anticipato, la genesi della legge sul condominio non ne permette un esame
articolo per articolo, come normalmente fanno i diversi commentari, ma è necessario
iniziare con l’analisi dei principi e la loro applicazione giurisprudenziale, terminata
l’operazione, solo allora si potrà procedere con lo studio degli articoli.
La struttura
L’attuale normativa sul condominio può essere divisa in due parti, la parte statica e la
parte dinamica. La prima individua le parti comuni del caseggiato e disciplina i diritti ed
i doveri sulle stesse, la seconda pone degli organi preposti all’amministrazione.
La prima parte, viene da noi definita statica in quanto disciplina situazioni non
modificabili, ovvero, stabilisce i diritti ed i doveri dei singoli condomini sulle parti
comuni, così come sono stati acquisiti con l’acquisto del bene, il che dà luogo ad una
situazione di equilibrio e stabilità che non può essere variata se non con l’assenso di
tutti i partecipanti alla comunione condominiale. Al contrario, la parte che abbiamo
definito dinamica, è diretta a disciplinare la gestione delle parti comuni, per cui
introduce organi deputati all’amministrazione e, quindi, alla creazione di diritto nuovo,
attraverso l’emanazione di atti idonei a modificare la sfera giuridica dei singoli
condomini. Principio fondamentale è che gli atti emanati dagli organi del condominio
non possano modificare i diritti stabiliti nella parte statica della legge. Un esempio potrà
chiarire meglio la situazione:
Tizio acquista un immobile nel condominio A. Tale posizione gli garantisce due accessi, uno attraverso la
scala comune, uno attraverso una scala privata. Tale situazione, acquisita attraverso l’atto di acquisto (o
attraverso la legge), non potrà essere modificata dall’assemblea, la quale non potrà limitargli l’uso della
scala comune, della quale sarà, comunque, sempre contitolare, ma neppure lui stesso potrà rinunziare al
diritto al fine di evitare le spese, atteso che una rinunzia in tal senso dovrà avvenire con l’unanimità dei
consensi (tutti i condomini) ovvero con una decisione che esula dalla normativa condominiale dinamica per
approdare a quella statica (contratto o titolo di acquisto). La struttura del seguente lavoro sarà costituita,
quindi, dall’esame della legge attraverso lo studio della parte statica e della dinamica, quest’ultima a sua
volta distinta in organi e atti.

4) La parte statica

Il maggiore problema di interpretazione delle norme sulla parte statica è se queste non
apportino alcuna novità sostanziale al sistema, che sarebbe già di per sé disciplinato dai
principi sulla proprietà e sui diritti reali e rappresentino, pertanto, esclusivamente degli
interfaccia applicativi della normativa generale del terzo libro del Codice Civile
all’interno della disciplina dell’edificio o, al contrario, rappresentino una normativa
speciale le cui statuizioni possano contraddire i principi generali e, sulla base del
principio di specialità, prevalere sugli stessi.
Ad esempio: un condomino si allaccia all’impianto dell’acqua condominiale attraverso una seconda
derivazione, in aggiunta alla sua preesistente. Sulla base dei principi in materia di diritti reali, costui
avrebbe posto in atto un comportamento illecito, atteso che eserciterebbe il possesso di una servitù
apparente, con la possibilità di usucapirne il diritto dopo vent’anni di utilizzo; non è infatti lecito
aumentare il proprio diritto su una parte comune a scapito degli altri; nella proprietà fondiaria aumentare
il numero o il volume degli allacci costituisce un indebito aumento del diritto. Interpretando invece
l’articolo sulle innovazioni nel condominio, in maniera completamente autonoma, il comportamento del
singolo diverrebbe legittimo qualora il suo allaccio ulteriore, pur integrando una variazione e un aumento
dell’utilizzo della parte comune, non compromettesse il servizio di erogazione agli altri condomini.
Da una parte vi è l’esigenza, dato il gran numero di parti necessariamente comuni in un
edificio, di non rendere impossibile qualsiasi modifica necessaria (sarebbe
particolarmente oneroso che chi, per errore, avesse ricevuto minori piastre radianti
fosse obbligato a citare tutti i condomini per poterne aumentare il numero o la
superficie) dall’altra non è neppure ammissibile interpretare la normativa condominiale
come un isola senza alcun contatto con la normativa preesistente e ancora in vigore.
L’interpretazione della normativa dovrebbe avvenire nel senso che questa, benché
speciale, non possa contraddire i principi generali, anche se la specialità dovrebbe
prevalere soltanto quando effettivamente motivata. Non si può, infatti, negare
completamente ciò che il codice del 1865 conferiva in termini di diritti su un edificio
quali servitù concorrenti, senza operare indebiti trasferimenti di diritti tra gli attuali
condomini degli edifici costruiti in quel tempo, ma si può limitare l’operatività della
disciplina delle servitù qualora non ne ricorrano i presupposti. La giurisprudenza della
Cassazione la quale, negli ultimi anni ha aborrito la presenza di diritti di servitù tra i
condomini di un edificio, sul principio secondo il quale non può esistere servitù su un
fondo dove si è già proprietari (nemini res sua servit), da ultimo ha manifestato una
maggiore apertura. Due pronunzie della Suprema Corte, Cass. 8591/99, ma soprattutto
Cass. 3749/99, hanno stabilito che ben possono esistere servitù tra condomini, ma che il
fattore rilevate sia l’effettiva destinazione della cosa; in altre parole, non esiste
esercizio di servitù nuova (e quindi innovazione illecita) se la cosa era già destinata a
quella data funzione che il condomino esercita in maniera maggiore, esiste esercizio di
servitù nuova (e quindi innovazione illecita) se un condomino esercita un diritto sulla
cosa che non corrisponde alla sua destinazione, non sussiste servitù se l’esercizio di uso
diverso non impedisce la funzione per la quale la cosa è destinata.
Esempio: costituisce fatto lecito per un condomino aprire un varco su un passo carrabile condominiale per
mettere in contatto la sua proprietà con la strada pubblica, proprio in quanto la parte condominiale era
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già destinata a passaggio; costituisce atto illecito porre in essere lo stesso comportamento se la parte
comune ha destinazione diversa, ad esempio giardino, in quanto si creerebbe una servitù nuova o una
innovazione illegittima, che limita l’utilizzo di una parte comune; costituisce atto lecito utilizzare la
facciata per appoggiarvi una targa in quanto l’utilizzo ulteriore non modifica la destinazione della facciata
(purché non si alteri il decoro architettonico).
Secondo quest’ultimo orientamento, senz’altro da accogliersi, viene segnato il confine
tra servitù, art. 1102 (godimento nella comunione) e art. 1120 (innovazioni) senza urtare
i principi generali e senza introdurre una rigidità che la normativa specialistica non ha
voluto.
Questi problemi saranno ricorrenti, per cui, acquisirne la conoscenza, risulterà
fondamentale.
Le parti comuni
Il problema più frequente circa l’individuazione delle parti comuni, riguarda
l’interpretazione dell’art. 1117 c.c, nel senso se questo integri un elencazione
meramente esemplificativa, ovvero rappresenti una presunzione salvo prova contraria e,
da ultimo, se la prova contraria possa essere costituita soltanto dal titolo inteso come
atto scritto (atto di acquisto, successione, donazione, titolo giudiziario ecc.) o, al
contrario, debba intendersi quale titolo anche la destinazione. L’interpretazione
dell’art. 1117 detiene una certa rilevanza proprio in quanto l’art. 1117 segna il limite di
operatività della parte dinamica nei confronti della parte statica; facciamo un esempio:
in un palazzo sono presenti due scale, ciascuna di loro serve un certo numero di appartamenti. Secondo
un’interpretazione letterale dell’art. 1117, entrambe le scale sono di proprietà di tutti i condomini dello
stabile (salvo ripartizione secondo l’utilizzo effettivo ai sensi degli artt. 1123 e 1124 c.c.) per cui
l’assemblea avrà il potere di normare su entrambi i beni, mentre interpretando in altro modo l’art. 1117,
solo i condomini serviti saranno titolare di diritti sulla scala che li serve, per cui l’assemblea che, in
seduta comune, decidesse su una delle due scale, opererebbe su un bene non condominiale in quanto
parzialmente condominiale e quindi al di fuori delle proprie competenze, dando luogo ad un
provvedimento deliberativo nullo.
Esistono diverse teorie, supportate da diversi filoni giurisprudenziali (alcuni,
contrastanti, addirittura all’interno della seconda sezione della Cassazione): secondo
una prima teoria (poco praticata) l’art. 1117 costituirebbe un’elencazione meramente
esemplificativa. Secondo questa teoria, un bene diventa condominiale solamente quando
sia stato destinato all’uso comune, si tratti di un tetto o di un muro portante; in caso
contrario, rimarrà di proprietà di colui o di coloro ai quali il costruttore lo avrà
predisposto. Questa teoria, ammette il condominio parziale ogni volta che la
destinazione di un bene sia a servizio di una parte sola dei condomini, a prescindere
completamente dalla sua presenza nell’elencazione di cui all’art. 1117 c.c..
Secondo una diversa teoria, l’art. 1117 rappresenta una presunzione di comunione di
quelle parti elencate nell’art. 1117; la presenza di un bene nell’elenco, lo dichiara di
proprietà comune, salvo che il titolo non lo disciplini in maniera diversa. Questa teoria,
peraltro, cerca di contemperare l’art. 1117, con l’operatività dell’art. 1123 u.c.,
ammettendo che possa costituire titolo non solo l’atto scritto legittimante il diritto
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esclusivo del proprietario (o il regolamento contrattuale dell’edificio) ma anche la
destinazione del bene attribuita dal costruttore. Un tetto, pertanto, si presume
proprietà comune tra tutti, ma qualora serva solo una parte dei condomini, sarà di
proprietà soltanto di questi ultimi.
L’ultima teoria, al contrario, non riconosce all’ultimo comma dell’art. 1123 c.c. alcuna
funzione di attribuzione della proprietà, che si presume comune se una parte viene
definita comune dall’art. 1117, ma soltanto di disciplina della ripartizione delle spese;
tale filone giurisprudenziale, infatti, riconosce che l’art. 1123 u.c. sarebbe inutile se
bastasse la destinazione a influire sulla proprietà, mentre la sua esistenza è proprio
finalizzata a ripartire le spese di parti comuni in base all’equo utilizzo. Questa linea
interpretativa riconosce valenza di titolo soltanto all’atto costitutivo della proprietà e
non alla destinazione, che potrà influire sulla ripartizione delle spese ma non sulla
sussistenza del diritto.
Come sopra accennato, anche in giurisprudenza sussistono contrasti interpretativi. Due
pronunzie, Cass. 1568 del 24/2/99, e Cass. 3409 del 22/3/2000, hanno seguito l’ultima
delle tre teorie sopra riportate, negando la rilevanza della destinazione mentre, più di
recente, la S.C. è tornata ad ammettere che l’art. 1117 fa un’elencazione non tassativa
ma meramente esemplificativa…la disposizione può essere superata se la cosa, per
obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di
una parte dell’immobile…giacché la destinazione particolare del bene vince
l’attribuzione legale, alla stregua del titolo Cass. 7889 del 9/6/00.
Invero, si deve riconoscere che si sono affermati due veri e propri partiti delle parti
comuni (P. Gatto-Archivio delle Locazioni e del Condominio 1996 Pag. 849 Fondamento
Giuridico del condominio), il primo, più conservatore, che è preoccupato dell’eccessiva
affermazione del potere dell’assemblea a danno del singolo, per cui predilige
interpretazioni della legge che integrino un continuo con la disciplina dei diritti reali
(molto attenta ai diritti del singolo) il secondo, più progressista, che tende a negare la
sterile logica proprietaria in vista del bene comune, sacrificando magari qualche
interesse individuale. Questo secondo “partito” vede nella normativa condominiale un
corpo autonomo con propri principi e, nei casi più “estremi”, un terreno fertile per la
coltivazione di principi costituzionali di solidarietà sociale e di tutela per i più deboli.
Abbiamo rilevato, con soddisfazione, che le Sezioni Unite della Cassazione, con la Sentenza n. 4806 del
07/03/2005, hanno riconosciuto implicitamente la suddivisione tra la parte statica e la parte dinamica;
nel corpo del provvedimento che ha sancito definitivamente il principio relativo alla nullità ed
annullabilità delle delibere, la S.C. ha riconosciuto che, con termine “condominio” assume due significati:
uno relativo al diritto reale dei condòmini sulle parti comuni e l’altro relativo al sistema che permette la
gestione del caseggiato.
La nostra teoria
E’ necessario chiarire che la nostra posizione è nel senso di non creare una frattura tra
la normativa condominiale e quella generale dei diritti reali, per cui si deve ritenere che
l’art. 1117 abbia, per lo più, rilevanza meramente esemplificativa anche in quanto non è
possibile nell’analizzare una disciplina, prescindere da quella degli istituti giuridici nella
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quale si è venuta a formare.
E’ bene, comunque, chiarire che l’art. 1117 contiene esso stesso un errore che
crea una frattura con il passato; la norma, infatti, enuncia, quale parte comune, il
terreno sul quale sorge l’edificio, con ciò intendendo il terreno come parte comune
dell’edificio. Secondo i principi del nostro codice, il terreno ha rilevanza fondamentale;
il principio dell’accessione, infatti, stabilisce che la proprietà del terreno attragga tutto
ciò che vi si trovi sopra; secondo questo istituto, non è l’edificio a rendere comune il
terreno, ma viceversa, la comunione del terreno rende comune tutto l’edificio per cui, il
singolo che compra un’unità immobiliare in un palazzo, acquista in primo luogo una
porzione del terreno, quindi un appartamento su esso situato. Tale fatto determina la
presunzione di comproprietà di tutto il palazzo e rende inapplicabile quello delle servitù
per destinazione del padre di famiglia, cioè è la comunione del terreno, che induce la
comunione di tutto l’edificio, tranne per gli appartamenti venduti a mezzo valido titolo
e le loro pertinenze esclusive (tubature, camini).
Cosa ne è pertanto delle parti che, pur nell’edificio, non servono tutti i
condomini, continuano ad essere comuni o opera il principio della destinazione o
dell’apparenza (condominio parziale)? A nostro parere, la domanda è posta in maniera
errata; il criterio sul quale si dovrebbero basare le decisioni dovrebbe essere quello
dell’interesse; sulla scorta dell’interesse, il singolo potrà impedire all’assemblea di
violare i propri diritti, sulla base dell’interesse un condomino potrà votare in assemblea,
sulla base dell’interesse un condomino potrà intervenire per limitare l’operato di altri
condomini nell’edificio, sulla base di un interesse economicamente apprezzabile,
derivante dalla sua comproprietà sulle parti dell’edificio.
E’ necessario, peraltro, individuare i criteri che determinano l’interesse; ebbene,
questi criteri saranno dati dalla destinazione, che sono gli stessi sui quali viene
determinata l’apparenza nelle servitù: pertanto un condomino non potrà impedire che si
intervenga nella scala alla quale non accede se tali opere non pregiudichino la statica
dell’edificio, mancando un suo apprezzabile interesse collegato con la sua proprietà
esclusiva. Il condomino o i condomini, pertanto, potranno fare valere i loro diritti con le
azioni reali e possessorie sui beni dell’edificio loro assicurate dalla legge, purché sussista
un apprezzabile interesse economico collegato al loro titolo, interesse determinato dalla
destinazione delle parti dell’edificio alla loro proprietà esclusiva. Non potrà, pertanto,
agire chi è mosso da meri fini emulativi.
Ultimamente, per quanto concerne la possibilità per un condomino di chiudere il pianerottolo dell’ultimo
piano in quanto non utilizzato dagli altri condomini, la S.C. ha negato tale possibilità, atteso che la scala
rappresenta un bene comune e nessuno se ne può appropriare, ancorché parzialmente (Cass. 21256/09;
articolo di Gatto P. su “Il Sole 24 Ore” del 22/03/2010) con ciò smentendo un recente precedente (Cass.
21256/09) che stabiliva che è il comproprietario può ricavare un maggior uso dal bene comune purché non
ne impedisca l’utilizzo agli altri, secondo un criterio di prevedibilità; l’innovazione non deve costituire un
limite ad un uso “prevedibilmente possibile” per gli altri (questione relativa all’apertura di passaggio su
spazio comune-articolo di Gatto P. su Il Sole 24 Ore del 26/10/2009.
In conclusione, un edificio nasce sempre di proprietà di un’unica persona od ente; nel
momento in cui viene ceduta la prima proprietà immobiliare, le parti non esclusive (e
relative pertinenze) divengono anch’esse parte di una comunione in quanto sorgono su
terreno in comunione; i diritti nascenti dalla comunione potranno venire tutelati
solamente in presenza di un apprezzabile interesse economico, dato dalla destinazione
attribuita alle parti dell’edificio a servizio delle singole unità immobiliari.
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Tale interpretazione concorda con i principi seguiti dalla recente giurisprudenza in
materia di supercondominio. La Suprema Corte, infatti, nel ritenere applicabile la
normativa condominiale a quella del supercondominio, in luogo di quella della
comunione, riconosce la differenza tra parti comuni necessarie (quali le strade ecc.) in
quanto funzionalmente collegate alle unità abitative,e le parti non necessarie (piscine,
campi sportivi) per le quali non vi è destinazione né collegamento con gli appartamenti.
Ciò avviene anche nel condominio, alcune parti, quali i cortili e i vani comuni, possono
esistere indipendentemente dalle unità private e sulle stesse permarrà una comunione
generalizzata, per le parti invece funzionali (scale, tetti ecc.) la comunione generale
verrà assorbita dalla destinazione (anche ai sensi dell’art. 1119 c.p.c.) che sarà indice
del reale interesse del condomino o dei condomini. E’ bene rilevare, peraltro, che la
comunione sussiste in tutto l’edificio, per cui il condomino può servirsi di una parte
comune, in forza di tale comunione generalizzata, ai sensi dell’art. 1102 c.c. per scopi
anche diversi da quelli di cui la naturale destinazione (apposizioni di insegne, targhe
ecc.) senza, ovviamente, mutare la destinazione per gli altri.
Esistono, infatti, due centri di attrazione nell’edificio in condominio; esiste, infatti, la
“vis atractiva” esercitata dal terreno al momento della costruzione dell’edificio, il quale
diventerà di proprietà del titolare del terreno (o del titolare di diritto di superficie). Al
momento della cessione della prima unità abitativa, il primo acquirente (e,
successivamente, gli altri) acquisterà una quota (indivisa) del terreno che lo renderà
titolare in comunione dell’intero edificio, e un’unità immobiliare “esclusiva” che
costituirà (in concorrenza con le altre) il secondo polo di attrazione sulle parti comuni
dell’edificio; la misura dell’attrazione varierà il relazione all’asservimento delle parti
comuni alle proprietà esclusive, e ciò sulla base dell’apparenza data dalla destinazione
conferita dal costruttore, inteso questo quale entità a rilevanza tecnica. Il relazione alle
singole unità immobiliari, pertanto le parti comuni potranno atteggiarsi nei modi
seguenti:
1)-Parti pertinenziali alla proprietà esclusiva: sono i prolungamenti delle proprietà
esclusive all’esterno, quali i poggioli, le diramazioni delle condotte, le canne fumarie
ecc. Possono essere costituite anche da condomìni parziali (quali le canne fumarie
collettive). 2)-Parti comuni con asservimento per destinazione: sono costituite dalle
parti deputate dal costruttore a servire i singoli appartamenti; sono, in genere tutti i
beni elencati dall’art. 1117 c.c. che, effettivamente, siano destinate a servire la singola
proprietà. 3)-Parti comuni occasionalmente utili soggettivamente: sono le parti
destinate ad alcune o a tutte le proprietà esclusive ma utilizzabili anche
soggettivamente con funzioni diverse, ai sensi dell’art. 1102 c.c., ad esempio le
facciate, destinate a preservare le unità dalle intemperie e il decoro dei muri maestri,
possono essere utilizzate soggettivamente per apporvi targhe ed insegne, o per farvi
correre fili e cavi; così un tetto che non serve tutte le unità, può essere utilizzato per
porvi un’antenna anche da chi non è servito direttamente dalla copertura, la tromba
delle scale può contenere l’ascensore. 4)-Parti destinate solo ad alcune unità e
totalmente inutili alle altre: sono quelle per le quali chi non ha interesse non può
intervenire nella loro disciplina; un esempio può essere l’impianto condominiale di
riscaldamento quando escluda alcuni fondi, i quali non potranno vantare alcun diritto.
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Anche per quanto concerne la relazione con l’accessione, la Cassazione ha avallato la nostra
interpretazione già proposta nell’articolo “Le Sezioni Unite, il fondamento del condominio ed il progetto di
riforma” (Archivio delle Locazioni e del Condominio-Giugno 2005 n. 3). La Sentenza SS.UU. n. 16794 del
30/07/2007, infatti, ha confermato che l’indennità di sopraelevazione che deve essere corrisposta dal
proprietario dell’ultimo piano agli altri, trova la sua ratio nel maggior valore di suolo comune acquisito
dalla superiore quota millesimale indotta dalla sopraelevazione stessa.
Il rapporto tra proprietà del suolo e condominio è richiamato in altre recenti pronunce (Cass. 7043/08-
26796/07).
Le modifiche della legge
La legge 220 del 2012 ha introdotto alcune modifiche che non mutano l’impianto
normativo nel suo sistema. In realtà, sono state introdotte tre estensioni dell’art. 1117
(bis, ter quater) che, di fatto, codificano orientamenti giurisprudenziali già consolidati o
stabiliscono nuovi principi e procedure di improbabile applicazione pratica.
Art. 1117 bis; la nuova norma introduce la fattispecie, di natura pretoria, del supercondominio;
in realtà la legge non introduce nulla di nuovo, visto che la fattispecie era
già stata oggetto di numerose pronunzie da parte della giurisprudenza di legittimità,
nonché delle Sezioni Unite; non solo, ma l’interpretazione della norma non potrà
prescindere dai principi già applicati e cristallizzati dalla giurisprudenza, per cui la
norma appare del tutto inutile. In pratica stabilisce che la normativa sul condominio si
applica ai super-condomini.
Art. 1117 ter; la nuova norma non solo costituisce un elemento di difficile applicazione
pratica, ma rappresenta una vera e propria aberrazione giuridica, ove prevede che
l’assemblea possa, tramite una procedura speciale (con termine di venti giorni per la
convocazione e maggioranza specifica di quattro-quinti dei partecipanti e delle quote),
modificare la destinazione delle parti comuni. In pratica, l’assemblea, prima d’ora
vincolata alla parte dinamica e, pertanto, incompetente a modificare il titolo, viene
deputata a modificare le parti comuni a maggioranza. Appare chiaro che, ove si
modifichi il titolo, la norma rischia di essere considerata anticostituzionale, in quanto
limitativa della proprietà in senso tecnico mentre, ove ci si trovi in presenza di ben i
ormai obsoleti, la giurisprudenza ha sempre ritenuto l’assemblea competente alla
soppressione o alla trasformazione di quei servizi e di quelle parti che non presentassero
più utilità o fossero economicamente non opportune, con maggioranze ordinarie per cui,
da un lato, vi può essere compromissione dei diritti del singolo, dall’altro la legge ha
reso più complesse attività che, già in precedenza, erano considerate normali, con il
rischio di incrementare le liti.
Art. 1117 quater; altra norma inutile e in conflitto con l’impianto precedente. La nuova
estensione dell’art. 1117 prevede che, in presenza di attività che modifichino la
destinazione sostanziale delle parti comuni, i condomini, anche singolarmente, possano
diffidare l’autore e possano chiedere la convocazione dell’assemblea per fare cessare la
violazione anche mediante azioni giudiziarie. In primo luogo esisteva già il divieto delle
innovazioni vietate ricomprendendo, queste, tutte le ipotesi nelle quali un bene comune
potesse diventare inutilizzabile da parte di un solo condomino; ma la illogicità della
norma non si ferma all’aspetto sostanziale ma invade quello procedurale; l’art. 1130 c.c.
prevedeva già, senza necessità dell’autorizzazione assembleare, che l’amministratore
potesse agire per i cosiddetti “atti conservativi”; oggi la vecchia norma rimane ma viene
aggiunta quella nuova. L’unica interpretazione che può essere data è quella dell’inerzia
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dell’amministratore; si pone l’attenzione di come la parte statica della normativa, sia
stata infarcita di elementi relativi alla parte dinamica come le procedure di
contestazione e sindacato assembleare, sindacato, peraltro, inesistente in quanto
l’assemblea come non può vietare innovazioni legittime, così non può assecondare
innovazioni vietate; è una norma, anche questa, che rischia di fare crescere il
contenzioso.
I DIRITTI E I DOVERI
I diritti
Il diritto dei singoli sulle parti comuni è essenzialmente quello del godimento, cui fa da
corollario quello di amministrare. Il condominio si differenzia dalla proprietà (e dalla
semplice comunione) in quanto mentre in questi ultimi istituti il titolare ha la facoltà di
godimento collegata a quella di disporre del bene (di cederlo, donarlo ecc.) nel
condominio, il bene in comunione non è cedibile se non unitamente all’unità abitativa
alla quale è funzionalmente collegato.
Ad esempio, il titolare di un appartamento non potrà cedere i diritti sulla scala
condominiale senza cedere anche il suo appartamento, ma neppure potrà cedere in
locazione a terzi il posto auto condominiale, senza cedere contemporaneamente in
locazione anche l’unità abitativa.
Ora è bene analizzare cosa si intenda per godimento o per utilizzo; con detti termini,
non si intende l’uso o l’utilizzo del linguaggio comune, ma si intende per lo più
godimento astratto e potenziale o meglio prediale. Con il termine prediale si intende la
dipendenza da un fondo e non da un soggetto.
Ad esempio: il proprietario di un appartamento ha diritto sulla scala condominiale, intanto che la utilizza
al fine di raggiungere la sua proprietà al piano. Lo stesso soggetto esercita un diritto anche sul muro
maestro dell’edificio tramite una facoltà di godimento astratta e collegata al suo fondo. Infatti, il suo
immobile, a prescindere dall’esercizio effettivo di un’attività di uso, si serve comunque astrattamente sia
del muro maestro dell’edificio (che ne permette l’esistenza e la conservazione), sia della scala, anche se
l’appartamento è disabitato, o abitato da terzi; il godimento è anche, di conseguenza, potenziale, atteso
che prescinde da una reale attività soggettiva.
Invero, la Cassazione, con tre pronunzie (855/00, 2255/00,e 6341/00 ) ha stabilito il
principio secondo il quale il godimento di una parte comune può avvenire
astrattamente, attraverso la destinazione di un bene al fondo che ne è servito
(godimento oggettivo) o direttamente dal soggetto che utilizza il bene (godimento
soggettivo). In questa seconda ipotesi, a parere della Suprema Corte, l’art. 1102 amplia
la possibilità di utilizzare il bene anche per funzioni diverse per le quali è destinato,
purché non venga reso inutilizzabile anche nei confronti di uno solo degli altri
condomini.
L’esempio riportato da una delle due pronunzie di cui sopra, è quello del condomino che
si serve del muro condominiale per appoggiarvi una tubazione. La Cassazione riconosce
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che la facciata condominiale può essere utilizzata legittimamente, anche se
impropriamente, per appoggiarvi tubi, condotte o affiggervi targhe ed insegne, purché
non se ne impedisca parimenti tale uso agli altri e non ne vengano compromessi il
decoro architettonico o la funzione protettiva. Anche in questi casi, implicitamente,
viene reintrodotto il concetto di interesse. Il condomino o l’assemblea non potranno
opporsi ad un comportamento che non leda interessi economici collegati all’esercizio del
diritto sul bene.
La misura
Come anticipato, corollario al diritto di godimento è il diritto ad amministrare le parti
comuni. Peraltro, tale facoltà, che nei diritti reali è sempre piena, nel condominio è
affievolita ad interesse legittimo, atteso che l’ordinaria amministrazione (intendendosi
con ordinaria ogni attività diretta alla conservazione delle parti comuni, quindi anche
lavori straordinari) è devoluta all’assemblea ed il singolo condomino partecipa soltanto
all’amministrazione in proporzione alle sue quote; tale affievolimento si ripercuote
anche sull’uso e il godimento delle parti comuni che diventa proporzionale alla quota
del singolo.
La quota di comproprietà di un condomino sulle parti comuni è proporzionale al valore
della sua singola proprietà immobiliare, in relazione a tutte le altre. I diversi valori,
normalmente, vengono proporzionati al valore complessivo di mille ed inseriti in tabelle
(tabelle millesimali). La tabella fondamentale, normalmente tabella A o della proprietà,
indica il valore di ogni singola unità immobiliare, sia per quanto riguarda il voto in
assemblea, che per quanto riguarda la ripartizione delle spese in generale.
I doveri
Il dovere fondamentalmente del condomino è quello di contribuire alle spese comuni e,
quale corollario, quello di non modificare l’equilibrio predisposto dal costruttore,
inducendo spese maggiori agli altri condomini (art. 1118 2° c. c.c.).
Anche in questo caso, si può parlare di dovere di contribuzione in senso astratto e
potenziale (o prediale).
Gli esempi sopra riportati per il godimento si attagliano anche per quanto riguarda il
dovere di contribuzione. Il proprietario di un appartamento che sostenga di utilizzare
soltanto l’ascensore, non potrà esimersi dal pagare le spese della scala, così il
proprietario di un appartamento disabitato non si potrà sottrarre alle spese relative al
tetto.
Anche in questo caso, la giurisprudenza sta iniziando a muoversi verso il riconoscimento
di spese dovute a contributo soggettivo nel caso ad esempio di accordi nei quali ad un
condomino venga conferito il diritto ad utilizzare un bene in misura maggiore o
impropriamente. La misura
Il principio della contribuzione, peraltro, a differenza di quello del godimento, che è
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proporzionale solamente al valore dell’unità abitativa, segue anche la misura
dell’utilizzo. L’art. 1123 c.c. stabilisce infatti che la contribuzione avvenga secondo tre
criteri : 1)-in proporzione al valore, 2)-in proporzione all’uso 3)- con esclusione di chi,
per destinazione, non possa utilizzare.
La ripartizione delle spese, pertanto, andrà effettuata, come principio, su base
millesimale; qualora, peraltro, un bene sia stato destinato dal costruttore a servire i
condomini in misura diversa, dovrà applicarsi, insieme al criterio millesimale, quello
dell’uso.
Negli ultimi anni la Cassazione ha più volte sottolineato la distinzione tra spese di manutenzione e spese
di consumo in relazione alla loro differente disciplina; le spese di manutenzione, infatti, sono da
considerarsi obbligazioni propter rem, ovvero obbligazioni che sorgono, per legge, quale conseguenza di
essere proprietari di un bene, per cui la loro ripartizione non può prescindere dal criterio millesimale,
mentre le spese di consumi e servizi sono ripartite non in ragione dei millesimi di proprietà, bensì in
relazione all’effettiva misura dell’uso e del consumo.
Caso particolare concerne l’illuminazione e la pulizia delle scale, dove la Cassazione, dopo un primo
dubbio, ha confermato, comunque la ripartizione a millesimi di cui all’art. 1124 c.c., nonostante si
trattasse di spese di servizio e ciò in quanto il criterio appaia equo sia in ragione alla manutenzione che ai
servizi e a prescindere dall’effettiva destinazione delle unità immobiliari. (Cass. 432/07-articolo Gatto P.
24 ore del 05/03/2007).
Il codice non stabilisce le regole di ripartizione differenziata se non in tre casi:
1)-ripartizione delle scale (art. 1124) per le quali la spesa va ripartita per metà in
ragione del valore e per metà in ragione dell’altezza del piano (la nuova legge ha
specificato che il criterio sia applicabile agli ascensori, come da orientamento uniforme
della giurisprudenza);
2)-ripartizione per le volte ed i solai (che permane a carico per metà del titolare del
piano di sopra e per metà del titolare di quello di sotto) ai sensi dell’art. 1125;
3)-ripartizione per i lastrici solari (art. 1126) la cui spesa di ristrutturazione va ripartita
per cui il titolare di calpestio sia onerato da solo di un terzo della spesa (a millesimi per
gli altri che sono coperti).
Per gli altri casi di utilizzo diversificato la legge non dice nulla, per cui sono sorti e
continuano a presentarsi notevoli problemi.
E’ noto il caso dei balconi. Un primo orientamento giurisprudenziale li considerava privati. Quindi si
affermò un secondo orientamento che individuava tre parti: il calpestio, di proprietà del titolare del piano
sovrastante, il celino, di proprietà del titolare del piano sottostante ed il frontalino, condominiale, in
quanto facente parte del prospetto. La giurisprudenza recente ha variato ulteriormente, dichiarando il
balcone, normalmente, proprietà di colui che lo utilizza, fatti salvi eventuali elementi architettonici e
decorativi del frontalino che possono fare parte del prospetto. Ancora più di recente, la S.C., con
sentenza n. 637/00, ha confermato gli ultimi orientamenti, reintroducendo, peraltro, il principio di cui
all’art. 1125 (volte e solai) qualora il balcone rappresenti, quale funzione, la continuazione della soletta,
nei fabbricati di cemento armato; ulteriore elemento di specificazione è stato determinato in relazione
alla fattispecie dei balconi stessi: l’art. 1125 (comproprietà della soletta) si applica ai soli balconi
“incassati” nella struttura del palazzo, mentre la soletta è privata nelle tipologie di balconi “aggettanti”
(Cass. 15913/07).
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Si capisce che tali soluzioni implicano indagini di ordine tecnico che ben difficilmente
possono essere assunte in assemblea in maniera tale da non poter venire smentite da un
C.T.U. del tribunale.
E’ bene ricordare che il dovere alla contribuzione, per indirizzo uniforme della Suprema
Corte, rappresenta un’obbligazione propter rem, ovvero un obbligo che nasce con la
proprietà dell’unità immobiliare.
Le innovazioni
L’argomento relativo alle innovazioni presenta una serie di difficoltà interpretative
derivanti proprio dalla genesi della legge. Le innovazioni, evidentemente, nascono da
determinazioni contrattuali di vecchi regolamenti, considerazioni che sono state
immesse nella legge in maniera piuttosto empirica; a tale fatto va aggiunto anche il
progresso tecnologico che ha cambiato la natura della norma; quella che un tempo
poteva essere definita innovazione (ad esempio l’installazione di citofoni ove inesistenti)
oggi rappresenta un fatto necessario alla sicurezza dell’intero caseggiato.
La materia delle innovazioni va esaminata sia in relazione alla parte statica, sotto il
profilo delle innovazioni vietate (modifiche che possono rendere meno comodo l’uso di
una parte comune) che in relazione alla parte dinamica, per quanto riguarda la spesa di
attuazione (per ciò che concerne le maggioranze speciali).
In questa sede si tratterà delle innovazioni per quanto concerne la parte statica.
Per quanto riguarda la “prima serie” di problemi, l’innovazione rappresenta sempre una
modifica dello status originario che può determinare delle mutazioni non volute dal
condomino che ha invece il diritto a veder conservato il bene comune nelle stesse
condizioni nelle quali lo ha acquistato. Non rileva in questa sede la spesa necessaria alla
modifica, atteso che questa può permanere anche a carico di un solo condomino, che si
oneri volontariamente di farsi carico del necessario. La Cassazione, con Sentenza n.
3508 del 10/4/99, ha sancito detto principio, già accolto dal Tribunale di Napoli,
secondo il quale la norma sulle maggioranze relative alle innovazioni si applica solo in
quanto la spesa permanga a carico di tutti i condomini, mentre qualora uno o solo una
parte dei condomini se ne faccia carico (nella specie l’installazione di un ascensore) si
applica l’art. 1102, relativo al diritto del singolo di servirsi della parte comune.
Riguardo alla parte statica, quello delle innovazioni rappresenta solo un limite dato dal
divieto di predisporre innovazioni che alterino l’uso della parte comune, che comportino
pregiudizio per la stabilità e per il decoro architettonico dell’edificio; chiaramente
delibere prese in tal senso, incidendo su diritti nascenti dalla parte statica della legge e,
pertanto, dal titolo, debbono considerarsi prese assolutamente al di fuori delle
competenze dell’assemblea e quindi radicalmente nulle. In altre parole, come
l’assemblea non ha il potere di opporsi ad un singolo che intenda eseguire un’opera
nell’ambito dell’art. 1102, così non ha il potere di intervenire concedendo l’assenso
qualora l’atto del condomino esorbiti dall’ambito dell’art. 1102, integrando innovazione
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vietata; si verte, pertanto, in materia inerente alla parte statica e non dinamica, per cui
l’assemblea non ha competenza.
Per quanto riguarda il merito della questione, sono ammesse tutte le modifiche a
carattere solamente migliorativo (ad esempio l’installazione di un ascensore a carico di
chi richiede l’innovazione) e sono vietate tutte quelle che contemplino la soppressione
dell’uso di parti comuni, che alterino la stabilità dell’edificio o il decoro architettonico.
A metà strada vi è la zona grigia delle modifiche o alterazioni non assolute, quelle cioè
che implicano mutamenti parziali e compensati da risultati migliorativi.
La S.C., con sentenza n. 11936 del 23/10/99, ha stabilito che l’innovazione in senso
tecnico-giuridico non è data da un qualsiasi mutamento o modificazione della cosa, ma
solamente da quella modificazione materiale che ne muti la destinazione originaria,
mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento
della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione…non possono
definirsi innovazioni nel senso suddetto. Nella specie si veniva a trattare di un
restringimento di un viale pedonale di accesso, in quanto tale fatto non integrava una
limitazione vietata del diritto di passo.
Detto principio è stato confermato in relazione agli ascensori, riconoscendo la
legittimità di una delibera che aveva ammesso la riduzione della larghezza della scala
per consentire l’installazione di un ascensore, in quanto l’incomodo poteva essere
validamente sostituito dal miglioramento del servizio.
Le modifiche della legge
La nuova legge prevede, in ogni caso, la comunicazione di ogni intervento
suscettibile di costituire modifiche innovative, all’amministratore, che ne riferisce
all’assemblea.
Per quanto concerne le innovazioni, non condominiali ma private, in materia di ricezione
radiotelevisiva e di produzione di energia mediante fonti non rinnovabili, l’art. 1122 bis
contempla l’obbligo di riferire all’amministratore, nell’ipotesi di utilizzo di parti
condominiali, il quale è tenuto a chiamare l’assemblea a pronunciarsi, con la
maggioranza qualificata speciale (quella dei due terzi) su eventuali modalità alternative
ed eventuali cautele, non esclusa la prestazione di una cauzione.
Maggioranza qualificata della metà dei condomini è richiesta dall’art. 1122 ter,
per la previsione di impianti di video-sorveglainza condominiali.
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La parte dinamica
IL CONDOMINIO COME ENTITA’ DI DIRITTO
Nel nostro sistema civilistico, è conferita rilevanza e capacità di essere soggetti di
diritto alle persone fisiche (uomini e donne) ed alle persone giuridiche (società di
capitali, fondazioni, associazioni riconosciute ecc.); a queste entità l’ordinamento
attribuisce, dal punto di vista economico, le stesse facoltà che alle persone fisiche reali;
queste possono concludere contratti, acquistare beni, diritti di godimento, eseguire cioè
tutte quelle attività delle persone reali, tranne quelle specifiche dei soggetti umani
(matrimoni e testamenti); hanno anche un patrimonio distinto da quello dei singoli soci
che le compongono. Esistono poi entità “quasi persone giuridiche” che non hanno
patrimonio completamente autonomo (società di persone, associazioni non riconosciute
ecc.) ma che possiedono una pur limitata personalità ed autonomia ad agire.
Queste entità agiscono quali enti, attraverso degli organi, che sono costituiti da persone
fisiche i cui atti sono attribuibili alla volontà dell’ente; la persona fisica, pertanto,
occupa un ufficio interno all’ente e ne manifesta all’esterno la volontà.
Da lungo tempo si discute se il condominio possa rappresentare una anche minima entità
autonoma di diritto ma la Suprema Corte si è orientata stabilmente in senso contrario. Il
condominio, cioè, non ha una neppur minima autonomia giuridica e pertanto non
rappresenta una persona di diritto; l’amministratore stesso, non costituisce un organo
interno ma il rappresentante dei singoli condomini nei confronti dei terzi, secondo un
rapporto esterno (e non di immedesimazione organica) assimilabile, per identità di
causa, con una specie del genere del contratto di mandato con rappresentanza.
Il condominio, pertanto, nell’ordinamento non esiste come persona autonoma, esistono i
singoli condomini, persone fisiche, rappresentati da un’altra persona fisica, data
dall’amministratore, che agisce in loro nome e per loro conto.
Da quanto sopra, ne discendono conseguenze giuridiche di diverso genere:
1)-In primo luogo, nei rapporti con i terzi, ogni singolo condomino rimane titolare di
posizioni giuridiche concorrenti con quelle del condominio, per cui non perde il suo
diritto di azione contro terzi ( Cass. 4810/00), ma neppure perde la titolarità passiva
nelle obbligazioni, per cui il terzo può agire direttamente nei confronti del singolo in
relazione ai suoi millesimi (Cass. 5117/00);
2)-Il condominio non ha una sede legale, ma il suo domicilio si identifica con quello
dell’amministratore che rappresenta i condomini (Cass.976/00), così è nulla la
notificazione al condominio senza l’individuazione del nome dell’amministratore;
3)-Nelle controversie giudiziarie tra condominio e terzi (o condòmini) il singolo
condomino che intende intervenire nel processo non riveste la qualità di terzo ma può
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intervenire, quale parte già costituita, con successiva costituzione autonoma (Cass.
8479/99), per la prima volta in appello (Cass. 7891/00) e per la prima volta nel giudizio
di rinvio dopo la pronunzia della Corte di Cassazione (Cass. 6813/00).
Da quanto sopra esposto, ne discende che il condominio non esiste come entità di diritto
oltre i singoli componenti partecipanti alla comunione e al soggetto che li rappresenta,
per cui neppure il termine di organi riferito all’amministratore e all’assemblea appaiono
esatti.
Per comodità, peraltro, nel corso del presente lavoro, individueremo l’assemblea e
l’amministratore quali organi del condominio.
GLI ORGANI DEL CONDOMINIO
Come anticipato, non rappresentando, il condominio, un’entità di diritto, ma essendo
definito dalla giurisprudenza ente di gestione privo di personalità giuridica, l’utilizzo del
termine organi è improprio; sta di fatto che la legge riconosce rilevanza alle decisioni
prese dall’assemblea, anche a carico dei dissenzienti e dall’amministratore, per conto
dei condomini, per cui useremo il termine suddetto per comodità, anche se
impropriamente.
Gli organi del condominio sono: l’amministratore e l’assemblea; nella prima trattazione
della parte dinamica, quella relativa agli organi, sarà attribuita maggiore rilevanza
all’amministratore, in quanto organo rappresentativo, nel momento in cui si tratterà
degli atti, sarà attribuita maggiore rilevanza alle delibere assembleari, in quanto
portatrici della volontà dei condomini.
L’amministratore: tipologia della carica
La giurisprudenza, ormai orientata a non attribuire al condominio alcuna personalità
giuridica, è di conseguenza orientata a non riconoscere all’amministratore alcuna
funzione organica interna all’ente, ma la sua funzione è assimilabile ad una specie del
genere contrattuale del mandato con rappresentanza.
In altre parole, tra singolo condomino e amministratore sorge un contratto di mandato
(sia pur conferito collettivamente) con rappresentanza, mediante il quale un soggetto
(amministratore) è obbligato, in cambio di un compenso (la giurisprudenza ritiene
oneroso il mandato) ad eseguire atti giuridici a favore di un altro soggetto atti che, nella
specie, si identificano con quelli di cui all’art. 1130 c.c. (che rappresentano l’oggetto
del contratto). A tale specie di contratto di mandato, sono sempre applicabili i principi
generali in materia, primo tra questi, l’obbligo della diligenza del buon padre di
famiglia.
Da quanto sopra, se ne ricava che l’amministratore sta in carica in forza di un contratto
di mandato, per cui si assume una responsabilità contrattuale nei confronti degli
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amministrati.
La differenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta, in primo luogo,
nella diversa valutazione della colpa che nella prima è presunta, mentre nella seconda
va dimostrata dal danneggiato; inoltre nella r. contrattuale è sufficiente anche una colpa
lieve, mentre è necessaria quella media nella r. aquiliana; sono diversi i termini di
prescrizione, che è ordinaria nella contrattuale (dieci anni) e abbreviata nella aquiliana
(cinque anni); sono diversi gli obblighi relativi al risarcimento, atteso che nella r.
contrattuale si risponde solo dei danni prevedibili, mentre nella extracontrattuale anche
di quelli non prevedibili al momento del fatto. La funzione, peraltro, di custodia
generalizzata dei beni comuni, da parte dell’amministratore, induce la cosiddetta
delega di funzione per cui l’amministratore diviene penalmente (con conseguente
responsabilità aquiliana correlata) perseguibile in luogo dei condomini per danni che si
dovessero verificare a persone e cose per eventi relativi al crollo di edificio, o a
mancata osservanza degli obblighi di sicurezza di cui alle nuove normative.
Un’ultima questione riguarda la possibilità per una società di ricoprire la carica di
amministratore di stabili. La S.C., in tempo orientata ad escludere che una società di
capitali (S.P.A., S.A.P.A., S.R.L. o Coop. a r.l.) possa fungere da amministratore di uno
stabile, in quanto verrebbe meno il rapporto fiduciario nei confronti degli amministrati
(Cass. 5608/94, ripresa da decreto Trib. Genova 11/7/01), oggi ha cambiato indirizzo,
ammettendo la possibilità che un condominio possa essere amministrato da una società
di capitali (Cass. 22840/06).
L’ultima decisione appare censurabile sotto diversi punti di vista. Il provvedimento confuta il
ragionamento della precedente pronuncia della Cassazione, in quanto veniva sottolineato il rapporto
fiduciario esistente tra condomini persona fisica solo in relazione alla responsabilità illimitata, mentre su
tale circostanza non si può fondare l’esistenza del rapporto di fiducia, mentre una società di capitali
potrebbe, senz’altro, meglio svolgere un compito che, oggi, è diventato oltremodo complesso.
A ben vedere, peraltro, le conseguenze dell’allargamento possono essere gravi e non del tutto prevedibili;
è chiaro che, qualora la società di capitali ceda le quote, l’amministratore, di fatto, verrebbe a cambiare
senza che i condomini se ne rendano neanche conto.
A questo punto è facile per il capitale entrare facilmente nei condomini, consentendo a grosse imprese di
erogazione di energia o assicurative, di acquistare le amministrazioni in blocco allo scopo di piazzare i loro
prodotti; i condomini “ceduti” potrebbero sempre revocare l’amministratore, ma la cosa è più facile a
dirsi che a farsi.
La nuova legge ha ratificato il più recente orientamento come infra.
Le modifiche della legge
Le modifiche che più hanno inciso sulla disciplina condominiale riguardano la
figura dell’amministratore e ciò è comprensibile se si conviene sull’aspetto
prevalentemente demagogico della normativa.
L’amministratore diventa necessario qualora nel condominio vi siano più di otto
condomini, mentre non vi è l’obbligo nei condomini minori, anche se si applicano
ugualmente le norme sul condominio.
La figura dell’amministratore viene disciplinata sotto il profilo soggettivo, con previsione
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di limiti ben definiti e di obblighi di scolarità e aggiornamento, e con ben definiti
obblighi in sede di acquisizione del mandato, mentre sono moltiplicati gli oneri la
violazione dei quali, comporta la revocabilità da parte dell’Autorità Giudiziaria.
Per quanto concerne i condomini cd. “minimi” composti da due soli condomini, per i quali la Cassazione
sosteneva si applicassero, relativamente alle maggioranze, le norme sulla comunione (Cass. 4721/01) ha
mutato di indirizzo con la Sent n. 2046 del 31/01/2006 a Sezioni Unite ha stabilito che la differenza tra
comunione e condominio sta nel rapporto di accessorietà delle parti comuni nei confronti di quelle private
e che, pertanto, costituiscano due entità ontologicamente diverse per cui, in caso di impossibilità di
decisione si potrà agire davanti il Tribunale il via non contenziosa ai sensi dell’art. 1105 c.c.,
Si intende, naturalmente l’obbligo dell’amministratore non deriva, neppure
secondo la nuova normativa da necessità di ordine pubblico, ma nel senso che ciascun
condomino, inserito in un contesto di condominio sopra gli otto partecipanti, abbia il
diritto ad essere amministrato da un soggetto deputato a tale funzione. Questo è il
motivo per il quale, accanto alla nomina ordinaria (a mezzo assemblea) esiste una
nomina dell’amministratore straordinaria, da esperirsi a mezzo dell’Autorità Giudiziaria.
Affinché l’Autorità Giudiziaria possa procedere alla nomina di un amministratore
d’ufficio, il condomino o i condomini interessati, devono dare la dimostrazione che
l’assemblea non è riuscita a nominare l’amministratore con la maggioranza qualificata di
cui al secondo comma dell’art. 1136 c.c. Pertanto, è necessario che l’assemblea si sia
già pronunciata e ne sia derivato un nulla di fatto. A quel punto, con istanza rivolta al
Presidente del Tribunale competente per territorio (il circondario in cui è sito il palazzo)
anche senza il patrocinio di un legale, ciascun condomino può proporre la domanda di
nomina di un amministratore, allegando il verbale della delibera negativa.
Requisiti soggettivi
L’art. 71 bis delle disposizioni di attuazione del codice civile prevede ben definiti
criteri soggettivi per svolgere l’attività di amministratore: godimento dei diritti civili,
non aver subito condanne nei confronti di una Pubblica Amministrazione,
l’amministrazione della giustizia o la fede pubblica o per ogni altro delitto che comporti
una pena minima superiore ai dua anni o massima ai cinque anni, non essere sottoposto
a misure di sicurezza definitive, non essere interdetto o inabilitato; avere conseguito il
diploma di scuola media di secondo grado, avere frequentato un corso di formazione e
seguire corsi di aggiornamento periodici. E’ da precisare che il possesso di diploma
di media superiore e i corsi di formazione non sono necessari per coloro che
amministrano lo stabile in cui sono condomini e non sono neppure necessari qualora, nei
tre anni precedenti, si sia amministrato per almeno un anno (ma, in questo caso, è
necessario l’aggiornamento periodico).
Possono amministrare stabili le società di persone e capitali, purché gli addetti
siano in possesso dei requisiti di cui sopra.
Deve ritenersi, secondo la nuova legge, sussistere un sistema di decadenza
automatica (che supplisce all’assenza di un albo) per cui in caso l’amministratore
perdesse uno dei requisiti necessari, ciascun condomino può convocare direttamente
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l’assemblea per la nomina del nuovo amministratore.
La nascita del rapporto
L’amministratore dura in carica un anno e può essere revocato in ogni momento
dall’assemblea, con la stessa maggioranza qualificata necessaria per la nomina. Il
rapporto, pertanto, appare asimmetrico, in quanto l’amministratore non può dare le
dimissioni prima della scadenza dell’anno, a meno che le dimissioni non siano accettate
dall’assemblea con la maggioranza qualificata, o a meno che non sussista una giusta
causa per la risoluzione del rapporto (inadempimento dei condomini) o l’ impossibilità o
l’eccessiva onerosità sopravvenuta (malattia o gravi problemi dell’incaricato); in caso di
insussistenza di motivi, se l’amministratore lascia prima della scadenza, può essere
chiamato a risarcire il danno; il condominio può sempre revocare il mandato, anche in
corso di rapporto, senza essere obbligato al risarcimento.
La nuova normativa prevede che l’amministratore, alla scadenza del mandato, sia
implicitamente confermato.
Questa soluzione dà luogo a problemi interpretativi: secondo alcuni la durata diventa di due anni, ma la
legge, avesse ritenuto ciò, lo avrebbe espressamente detto o avrebbe detto che l’incarico si rinnova per un
solo anno, non a tempo indeterminato. Secondo altra interpretazione, non sarebbe più necessaria
un’assemblea per la riconferma se non vi sono espresse richieste.
La nostra interpretazione va nel senso che l’amministratore deve convocare l’assemblea
per la nomina dell’amministratore (ciò si rileva dalle norme che gli impongono di
presentare i dati per ogni riconferma) ma, nel caso in cui non vi siano altri candidati,
l’assemblea può esimersi dal voto o qualora nessuno degli altri candidati raggiunga la
maggioranza qualificata, rimane in carica l’amministratore nel pieno dei suoi poteri e
non “ad interim” nonostante non abbia conseguito la maggioranza qualificata.
L’amministratore, al momento della nomina, è tenuto a presentare i propri dati
anagrafici e professionali, il codice fiscale, se si tratta di società anche la sede e il luogo
e l’ora in cui ogni condomino può verificare ed estrarre copia della documentazione
condominiale; l’assemblea può subordinare la nomina alla presentazione ai condomini di
una polizza assicurativa individuale, che l’amministratore è tenuto ad adeguare in caso
di lavori straordinari.
All’atto della nomina e di ogni rinnovo, deve presentare a pena di nullità analiticamente
l’importo dovuto a titolo di compenso.
Il compenso può essere determinato secondo il principio modulare, secondo il principio forfetizzato, o
secondo il principio forfetizzato integrato.
Sistema modulare: Il sistema modulare presuppone l’elencazione di una serie di voci per ciascuna delle
quali viene specificato il costo; detto sistema, peraltro, è da escludersi per la scarsa fiducia attribuita
dagli utenti, che preferiscono una determinazione unitaria per poter meglio comparare le diverse offerte
o, comunque, per non trovarsi brutte soprese al momento della rendicontazione;
Sistema forfetizzato: Il sistema forfetizzato presuppone una sola voce per tutta la gestione; deve essere
specificato che sono esclusi altri costi e spese. Il sistema è da sconsigliarsi in quanto può determinare un
compenso largamente insufficiente in caso di lavori straordinari o assemblee straordinarie non previste.
Sistema forfetizzato integrato: Il sistema forfetizzato prevede un compenso unitario, che ricomprende
tutta la gestione e non consente alcun costo ulteriore che non sia espressamente previsto (normalmente,
assemblee straordinarie, lavori straordinari ecc.).
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Esiste anche la revoca giudiziaria dell’amministratore. Originariamente era prevista in
tre ipotesi: la prima, nel caso in cui l’amministratore non informi i condomini della
notifica di atti giudiziari o amministrativi che esorbitino i suoi poteri; la seconda, nel
caso in cui, per due anni consecutivi, l’amministratore non presenti il bilancio; la terza,
nel caso di fondati sospetti di gravi irregolarità.
La nuova legge riduce ad uno gli anni sufficienti alla revoca (anche se il termine per
presentare il rendiconto viene fissato in centottanta giorni) in caso di mancata
presentazione del rendiconto e ha codificato una serie (esemplificativa) di violazioni che
comportano la revoca; in caso di mancata apertura del conto corrente condominiale e
in caso di irregolarità fiscali è necessaria una preventiva assemblea per la revoca
dell’amministratore prima di adire l’Autorità Giudiziaria, ma se non provvede l’assemblea
alla revoca, questa è tenuta a rifondere il condomino, che ha agito in giudizio, delle
spese legali sostenute.
Per il resto gli esempi di gravi irregolarità di cui al nuovo articolo 1129 c.c., sono i
seguenti:
1) Omessa convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto
condominiale o per la revoca o per la nomina del nuovo amministratore o negli
altri casi previsti dalla legge (da ricomprendersi le ipotesi di innovazioni vietate e
speciali).
2) La mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari o amministrativi , nonché di
deliberazioni dell’assemblea;
3) la mancata apertura ed utilizzazione del conto corrente condominiale (esiste,
ora, l’obbligo di fare transitare ogni somma sul conto corrente condominiale).
4) la gestione secondo modalità che possano generare possibilità di confusione tra il
patrimonio del condominio id il patrimonio personale dell’amministratore;
5) l’aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alle formalità eseguite nei
registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio;
6) qualora sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione delle somme
dovute al condominio, l’aver omesso di curare diligentemente l’azione e la
conseguente esecuzione coattiva;
7) l’inottemperanza di cui agli obblighi dell’art. 1130 n. 6 (curare la tenuta del
registro dell’anagrafe condominiale), 7 (curare la tenuta dei registri
dell’assemblea ed il registro di nomina dell’amministratore), 9 (fornire al
condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti
degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso).
8) l’omessa o incompleta comunicazione dei dati personali e professionali
all’accettazione e conferma dell’incarico.
Contrariamente a quanto avveniva in precedenta ora, espressamente, l’amministratore
revocato non può più venire rieletto dall’assemblea. La legge, peraltro, non stabilisce il
periodo di divieto per cui si deve ritenere che la nomina non possa avvenire per l’anno
della revoca, ma che possa avvenire nell’anno successivo; un divieto, infatti, deve
ritenersi applicabile restrittivamente.
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La causa e l’oggetto del rapporto
La causa
Come preannunciato, la causa del contratto che lega i condòmini all’amministratore
coincide con quella del contratto di mandato con rappresentanza; un soggetto si
obbliga, nei confronti di altri soggetti, in cambio di un compenso, a compiere atti in loro
nome e nel loro interesse.
Nel caso specifico, pur non dicendo nulla la legge, l’incarico si presume a titolo oneroso,
ma la suddetta presunzione è stata svuotata dall’onere di presentazione del compenso
dettagliato pena la nullità della nomina, così come introdotto dalla nuova legge. Sulla
misura esistono parecchi problemi; in primo luogo, devono ritenersi non vincolanti le
classiche tabelle pubblicate a cura di alcune associazioni di amministratori atteso che,
non essendo la professione legalmente protetta, non esiste un ente (pubblico) che possa
imporre un prezzario o controllarne l’applicazione, anzi, il garante per la libera
concorrenza (antitrust) ha condannato chi ha proposto tariffe professionali in quanto
abbia creato un cartello a carico della libera concorrenza.
Purtroppo, si deve altresì constatare che esiste il problema opposto a quello dell’esistenza di cartelli;
l’eccessiva corsa al ribasso sta privilegiando professionisti poco seri sia per quanto riguarda la diligenza
nello svolgere l’attività che l’onestà nel maneggiare denari altrui. Si sta, infatti, affermando un mercato,
nel quale all’amministratore che agisce con diligenza e, pertanto, pretende un giusto compenso (magari
commisurato alla mole di lavoro che avrà eseguito) viene prescelto colui che propone un prezzo
stracciato, magari col conto fatto di trascurare la professione (anche in termini di chiarezza e
conoscibilità) e di fare entrare da “altri lidi” quanto ha fatto risparmiare ai condomini nel momento del
suo ingaggio.
Si deve, purtroppo, anche riconoscere, che la bassa qualità degli amministratori è fortemente voluta dagli
stessi amministrati i quali sono portati, magari per inconfessate o inconsce necessità o invidie, ad
attribuire riconoscimenti a chi, invece, si dimostra più prepotente e spregiudicato (o magari si atteggia a
persona di successo); tutto questo quando non esistano vere a proprie associazioni di condomini con
interessi esterni, talmente forti, da influire sull’economia interna del caseggiato.
L’OGGETTO DEL RAPPORTO
L’oggetto del contratto di mandato tra condomini e amministratore, è contenuto all’art.
1130 c.c.. L’articolo in questione contiene quattro punti, oltre una norma non numerata
che impone all’amministratore di rendere conto della propria gestione al termine di ogni
anno.
La giurisprudenza della Cassazione si è, di recente (Cass. 3/12/99 n.13504), orientata
nel senso che l’amministratore, al fine di agire in giudizio per le materie di cui all’art.
1130, non abbia necessità di una delibera assembleare di autorizzazione, atteso che tali
compiti sono di sua stretta competenza, per cui è obbligato ad eseguirli, se del caso,
anche attraverso un procedimento nanti l’Autorità Giudiziaria; questo significa, in altri
termini, che i doveri che formano oggetto del contratto implicano atti dovuti da parte
del mandatario, il quale è tenuto ad adempiere anche nell’ipotesi in cui l’assemblea sia
contraria, bastando la volontà favorevole anche di un solo condomino. A seguito
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analizzeremo, per sommi capi, i doveri dell’amministratore secondo il codice civile,
tenendo sempre in debita considerazione che, all’interno di queste sintetiche
disposizioni, si inseriscono le complesse leggi sulla sicurezza, quelle in materia fiscale e,
in genere, tutte quelle nuove normative che ineriscono i compiti dell’amministratore.
Ad esempio, nel dovere di eseguire le delibere assembleari, c’è anche quello
dell’osservanza delle norme sulla sicurezza dei cantieri nell’ipotesi di approvazione di
lavori straordinari; così tra i compiti dell’amministratore rientrano quelli di garantire i
diritti dei singoli condomini sulle parti comuni, tra i quali rientrano sicuramente quelli
relativi alla sicurezza dello stabile, in relazione alle norme imperative vigenti. Così, il
generale dovere, in forza del contratto di mandato, di gestire con la diligenza del buon
padre di famiglia, impone all’amministratore l’osservanza delle normative in materia
fiscale, in maniera tale da non cagionare danni da sanzioni amministrative ai condomini
e, al contrario, in maniera da farli risparmiare nelle ipotesi di detrazioni fiscali.
1)-ESEGUIRE LE DELIBERE ASSEMBLEARI E CURARE L’OSSERVANZA DEL REGOLAMENTO
DI CONDOMINIO
Questo è il compito fondamentale dell’amministratore; l’amministratore è un organo
prettamente esecutivo, per cui il suo compito principale è quello di eseguire le delibere
assembleari. Il problema è se l’amministratore sia tenuto ad eseguire tutte le delibere o
solo quelle legittime. Una prima risposta la dà direttamente la normativa sul
condominio; l’art. 1137c.c. testualmente recita che il condomino dissenziente possa
impugnare la delibera contraria alla legge o al regolamento, ma che l’impugnazione non
ne sospende l’esecutività a meno che la sospensione non sia disposta dall’Autorità
Giudiziaria; tale disposizione impone all’amministratore l’obbligo di eseguire le delibere
anche se impugnate, a meno che non sospese (o naturalmente non annullate)
dall’Autorità Giudiziaria. L’amministratore non ha quindi il potere di valutare la
legittimità o meno di una delibera assembleare, la deve eseguire a meno che il Giudice
non disponga altrimenti.
Il problema è quello delle delibere nulle; vi sono infatti delle delibere assolutamente
nulle, che l’amministratore non è tenuto ad eseguire, anzi è tenuto a non eseguire; fino
a qualche tempo fa, vi era il problema dell’individuazione delle delibere radicalmente
nulle, al fine di distinguerle da quelle meramente annullabili; oggi la S.C., come avremo
ragione di vedere nel momento in cui si tratterà della delibera come “provvedimento”,
ha limitato la nullità a riguardo di quelle delibere con oggetto impossibile o illecito
(contrario a norme imperative di ordine pubblico) o prese al di fuori della competenza
dell’assemblea, rendendo più semplice la vita agli amministratori che, a questo punto,
avranno molti meno dubbi che in passato.
Per quanto riguarda l’obbligo di curare l’osservanza del regolamento di condominio, il
problema più dibattuto riguarda l’obbligo di fare rispettare anche le disposizioni non
regolamentari del regolamento contrattuale; ebbene, la giurisprudenza maggioritaria
ritiene che tale compito incomba all’amministratore solo se le disposizioni non
regolamentari vadano, comunque, a beneficio della collettività condominiale.
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L’art. 1138 c.c. prevede la presenza di un regolamento di condominio, approvato a
maggioranza qualificata, che contenga la disciplina di quelle materie che lo stesso
articolo elenca; tali materie sono definite, dalla giurisprudenza regolamentari. Vi sono
poi dei regolamenti, definiti contrattuali (della stessa natura di quelli di cui si è parlato
nella sintesi storica) che sono approvati all’unanimità o sono richiamati dagli atti di
acquisto (titoli); detti regolamenti, oltre alle materie “regolamentari”, sempre
modificabili a maggioranza, possono contenere servitù, oneri reali o obbligazioni propter
rem, a carico delle singole unità immobiliari o dei condomini in genere. E’ il caso ad
esempio dei divieti di adibire gli immobili a particolari attività; tali disposizioni non
possono essere approvate a maggioranza, ma all’unanimità; l’amministratore dovrà
comunque curarne il rispetto se le regole sono dettate a favore della comunità
condominiale, nel caso in cui, al contrario, beneficiario sia un singolo, a lui spetterà
tutelare i diritti che il regolamento gli conferisce.
2)-DISCIPLINARE L’USO DELLE PARTI COMUNI
Il secondo compito è il più ovvio, ma il meno semplice dal punto di vista pratico; se è
infatti vero che l’amministratore ha il potere-dovere di disciplinare l’uso delle parti
comuni al fine di garantirne il migliore godimento (con il limite che le sue disposizioni
debbano risolversi in una disciplina del godimento e non in un limite immotivato dello
stesso) è anche vero che le sue disposizioni, se non eseguite, non sono, di fatto,
eseguibili in alcun modo. L’amministratore, quale mandatario di tipo privato, non ha
infatti alcun potere coercitivo nei confronti dei condomini, per cui si deve, comunque,
rivolgere all’Autorità Giudiziaria in caso di inottemperanza alle sue disposizioni; non
solo, ma anche un provvedimento dell’Autorità, potrebbe non essere eseguibile, in
quanto avente per oggetto un comportamento.
Le ipotesi tipiche sono quelle, ad esempio, dei divieti di lasciare i passeggini
nell’androne del palazzo; qualora l’ordine dell’Amministratore non venga
spontaneamente eseguito, questi non ha alcun diritto di intervenire sui beni lasciati
nell’androne in quanto porrebbe in essere un reato di esercizio arbitrario delle proprie
ragioni; a ben vedere, peraltro, anche il ricorso all’Autorità si dimostrerebbe inutile,
atteso che il provvedimento emesso non sarebbe eseguibile se non attraverso
l’intervento continuo (e impossibile da esperirsi in pratica) dell’Ufficiale Giudiziario) che
sgomberi l’area; tenendo anche conto che i beni rimarrebbero in custodia a carico
provvisorio dei condomini.
Tale potere-dovere, rimane pertanto fortemente limitato dal buon senso dei condomini.
3)-EROGARE LE SPESE NECESSARIE E RISCUOTERE I CONTRIBUTI
Questo compito rappresenta una specificazione del generale dovere di eseguire le
delibere assembleari. Parte dell’esecuzione di delibere che comportano spese è
sicuramente l’erogazione delle stesse, mentre quella di delibere di approvazione di
spese, è sicuramente quello di esigerle dai condòmini. L’articolo in questione
attribuisce, peraltro, all’amministratore la funzione di cassa del condominio, per cui lui
è il custode delle somme necessarie alla conduzione condominiale.
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Un’ultima questione rimane quella del recupero forzato dei contributi dai morosi; la
legge pone un rimedio che è il decreto ingiuntivo esecutivo (art. 63 Disp. Att. C.c.); il
procedimento è veloce, ma l’espropriazione può essere lenta. Vediamo, in breve, l’iter.
In caso di morosità persistente (non è peraltro necessario alcun sollecito se non previsto
dal regolamento) l’amministratore deve agire, tramite un legale, per il recupero,
fornendo a quest’ultimo la delibera di approvazione della spesa e la ripartizione; il
legale procede davanti al Giudice competente per l’ottenimento del provvedimento.
Ottenuto il provvedimento, se non vi è pagamento, si procede all’espropriazione che può
essere mobiliare alla residenza del debitore (per importi minimi) o mobiliare presso terzi
(solitamente sulla retribuzione o sulle somme dovute dal conduttore a titolo di canoni) o
immobiliare (sull’immobile stesso) il che implicherà una lunga e costosa procedura,
sottoposta al rischio di insolvenza se vi sono già altri creditori muniti di privilegio.
4)-GARANTIRE GLI ATTI CONSERVATIVI I DIRITTI DEI CONDOMINI SULLE PARTI COMUNI
Prima di iniziare l’esame del punto più complesso tra i poteri-doveri
dell’amministratore, è bene dividere tra i mezzi posti a difesa dei condomini per
aggressioni provenienti da fatti, da quelli provenienti da atti, cioè da condotte
imputabili a soggetti di diritto. Aggressioni provenienti da fatti Sono date dalle minacce
provenienti da fattori esterni non umani, come gli eventi atmosferici o, più
semplicemente, il decorrere del tempo. L’amministratore viene delegato, per legge,
custode delle parti comuni, per cui è responsabile in caso avarie, crolli o altro, possano
cagionare danni economici ai condomini o danni a terzi, nelle ipotesi in cui l’A., per
negligenza, imprudenza o imperizia, non sia intervenuto in situazioni che potevano
degenerare. E’ l’ipotesi dei lavori urgenti. L’amministratore ha il dovere di procedere al
compimento di lavori, salvo immediato ricorso all’assemblea, qualora vi sia urgenza.
Anche la constatazione di urgenza è un procedimento, che l’amministratore ha il dovere
di compiere in maniera il più trasparente possibile, facendosi aiutare, se necessario, da
un tecnico. Fatti imputabili a soggetti L’amministratore ha il dovere di intervenire, in
queste ipotesi, senza il preventivo assenso dell’assemblea, trattandosi, per lo più, di
compiti di sua esclusiva spettanza; sono costituiti da azioni giudiziarie, da esperirsi nei
confronti di soggetti che minacciano i diritti dei condomini sulle parti comuni, vediamo
di analizzarli brevemente: Azione di garanzia per vizi: L’azione, disciplinata dall’art.
1669 c.c., pur integrando azione ordinaria, viene attribuita dalla giurisprudenza, in
maniera pacifica, all’amministratore (Cass. 3304/00) trattandosi di atto conservativo dei
diritti dei condomini. Si tratta dell’azione nei confronti dell’appaltatore o, addirittura,
del costruttore, per gravi vizi di costruzione; è un’azione di garanzia. Denuncia di nuova
opera: Si tratta di un’azione cautelare, da esercitarsi nanti il Tribunale, qualora un terzo
ponga in essere una nuova opera a danno delle parti comuni condominiali. L’azione deve
venire intrapresa entro l’anno dall’inizio dell’opera e prima che questa venga ultimata.
Denuncia di danno temuto: In questa ipotesi, l’amministratore deve agire, in via
cautelare, qualora sussista un pericolo di danno o di aggravamento di un danno già in
corso. Il Giudice (Tribunale) deve emettere provvedimenti provvisori al fine di eliminare
il pericolo. Azioni di reintegrazione e manutenzione: Sono definite azioni possessorie e
devono venire intraprese, qualora un terzo spogli o crei turbativa del possesso dei
condomini sulle parti comuni. L’azione va esercitata entro un anno da quando lo spoglio
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è avvenuto o da quanto la turbativa è iniziata; è necessario evidenziare che il possesso è
una situazione di fatto che non sempre corrisponde ad un diritto effettivo. La finalità
della legge nelle azioni possessorie è quella definita dal brocardo ne cives ad arma ruant
(affinché i cittadini non ricorrano alle armi). Tale assunto può meglio aiutare a
comprendere un concetto che non è dei più semplici. L’azione possessoria non è
esperibile soltanto da chi è titolare di un diritto, ma anche da chi esercita un possesso di
fatto, magari nei confronti dello stesso proprietario il quale, arbitrariamente, gli
impedisca di esercitarlo, magari sulla base di un diritto effettivamente esistente ma che
può essere fatto valere soltanto davanti ad un giudice. L’ordinamento vuole evitare gli
atti arbitrari o violenti (intendendosi con il termine “violenza”un’azione di fatto non
voluta da un altro soggetto) a prescindere dal fatto che possano avvenire a difesa di un
diritto effettivamente esistente, in quanto tale diritto può venire riconosciuto e tutelato
soltanto da un giudice. Così l’amministratore ha il dovere di agire in via possessoria non
solo nei confronti di un terzo che, ad esempio, parcheggi la propria auto nel cortile
condominiale, ma anche nei confronti di quel proprietario di un fondo che, tramite una
catena o altro, impedisca il parcheggio ai condomini, parcheggio magari non sorretto da
un titolo,ma che di fatto avviene pacificamente. Si badi di non confondere l’azione
possessoria da quella dichiarativa di usucapione, in quanto l’usucapione avviene a
seguito di possesso ventennale (normalmente) e trasferisce il diritto reale al possessore,
mentre l’azione possessoria non trasferisce il diritto, ma si limita a tutelare il possesso a
prescindere che sia sorretto o meno da un titolo legale. Il soggetto che ha spossessato
sarà quindi costretto a rimettere le cose come erano in precedenza e, solo in seguito,
agire per il riconoscimento del suo diritto con una azione ordinaria e l’esecuzione della
sentenza a mezzo Ufficiale Giudiziario. L’amministratore, dal canto suo, dovrà anche
prestare attenzione a non rendersi egli stesso colpevole di atti arbitrari, magari
ritenendo di esercitare un diritto. Un caso frequente è quello dei ponteggi nelle
proprietà private. Esiste un diritto che permette al vicino (o ai condomini) di accedere
ad un fondo al fine di eseguire i lavori necessari (art. 844 c.c.); tale diritto è peraltro
sottoposto all’autorizzazione del titolare del fondo, in mancanza di che,
l’amministratore dovrà agire, magari in via d’urgenza, al Giudice al fine di ottenere
un’ordinanza; qualora, invece, l’amministratore procedesse arbitrariamente a fare
posizionare i ponteggi, magari con la legittimazione dell’assemblea, porrebbe in essere
un atto censurabile in sede possessoria, per cui sarebbe costretto alla rimozione e, in
seguito, ad adire l’Autorità per poter porre nuovamente i ponteggi. Articolo 700 c.p.c.:
Il codice di procedura civile, prevede una norma di chiusura, qualora vi sia il pericolo
che un diritto possa venire irrimediabilmente leso dal tempo necessario al fine di
esperire un’azione ordinaria, ammettendo che il Giudice possa, in via d’urgenza,
anticipare l’effetto della sentenza, emettendo i provvedimenti necessari, salvo
conferma con procedimento ordinario. Si ritiene, normalmente che la procedura sia
applicabile giusto nel caso in cui un proprietario si opponga all’accesso nel suo fondo o
nell’ipotesi in cui il vecchio amministratore non consegni i documenti a quello nuovo.
Le modifiche della legge
La nuova legge ha introdotto altri adempimenti a carico dell’amministratore, alcuni dei
quali, implicitamente contenuti nei quattro punti originari, rimasti per lo più immutati,
altri del tutto nuovi.
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Brevemente si elencano
5) Eseguire gli adempimenti fiscali. Norma di chiara connotazione demagogica; il
legislatore dispone siano curati gli adempimenti fiscali, ma non dice quali siano,
probabilmente in quanto chi ha steso la legge non li conosce; ad esempio, spetta
all’amministratore promuovere le detrazioni fiscali in caso di lavori, visto che non
costituisce un incombenza di conservazione delle parti comuni ma mero vantaggio
economico e patrimoniale dei singoli? Ragionando in termini meramente
condominiali non costituirebbe un obbligo, ma qualche giudice potrebbe
sostenere che costituisce atto necessario in quanto improntato alla diligenza al
fine di non cagionare danni ai committenti; il legislatore, volutamente, non dice
nulla per cui, in presenza di norma imperative, quali sono quelle di natura fiscale
(ad esempio il sostituto di imposta) l’enunciato normativo è pressoché inutile in
quanto le norme fiscali sono già, di per sé, cogenti.
6) Curare la tenuta del registro dell’anagrafe condominiale. Nuovo compito che
investe l’amministratore della qualità di “conservatore” circa di diritti reali nel
condominio. Egli ha l’obbligo di richiedere, ai condomini, i dati personali e dei
diritti reali dell’immobile o degli immobili dei quali sono titolari. Ai dati sui diritti
reali sono aggiunti quelli relativi all’occupazione (eventuali inquilini o altro) e
sulla sicurezza (enunciazione demagogica quanto inutile in quanto del tutto
sfornita di elementi caratterizzanti tali da renderla applicabile. L’amministratore,
in caso di inerzia del condomino nel comunicare i dati, concede termine di trenta
giorni, in caso di ulteriore mancata risposta, farà eseguire gli accertamenti da un
tecnico, salvo l’addebito delle spese al singolo in difetto.
7) Curare la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, del registro nomina e
revoca dell’amministratore e del registro contabilità. Riguardo ai primi due
registri non si pongono problemi, mentre si pongono per il registro contabilità;
entro trenta giorni, infatti, ogni voce in entrata ed in uscita va registrata. Il
problema è che si tratta di un registro cronologico e, di conseguenza, fino a che i
programmi non avranno previsto delle procedure “bloccanti” nei dati inseriti, sarà
necessario predisporlo in forma cartacea, con le immani e prevedibili perdite di
tempo.
8) Conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione; norma
esistente in precedenza, anche se implicita, dove viene puntualizzato “sia al
rapporto con i condomini, sia allo stato tecnico e amministrativo dell’edificio e
del condominio (?); esiste una chiara imprecisione della legge, atteso che
l’amministratore è custode di tutta la documentazione, anche in relazione alle
passate gestioni e non solo alla propria.
9) Fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato
dei pagamenti. Questa è una vera e propria novità in quanto, in precedenza,
l’amministratore non aveva potere di certificazione; oggi se uno deve cedere
l’immobile ad esempio, può chiedere l’attestazione da consegnare al notaio per le
eventuali spese in sospeso ed eventuali liti.
10)Redigere il rendiconto annuale. Norma già esistente, anche se non numerata,
alla quale, oggi, è dato termine di centottanta giorni per la predisposizione del
rendiconto dalla chiusura del periodo di gestione (quasi sei mesi); è chiaro che la
dilatazione del termine fa buon gioco a quegli amministratori che sono
“traballanti”; una volta gestito metà mandato dell’anno successivo, infatti,
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verrebbero confermati in attesa dell’anno successivo, e l’anno successivo avverrà
lo stesso.
La nuova legge, con l’art. 1130 bis, precisa come deve essere redatto il rendiconto.
Secondo le nuove disposizioni, il rendiconto è costituito da un registro della contabilità, da un riepilogo
finanziario, nonché da una nota sintetica esplicativa delle gestione con l’indicazione anche dei rapporti in
corso e delle questioni pendenti.
La prima impressione che salta agli occhi è che si tratti di un rendiconto “per cassa” che tiene, cioè, in
considerazione le sole spese erogate ed incassate (e non delle spese maturate e non erogate) anche se vi
sono degli elementi di competenza (indicazione dei rapporti in corso e delle questioni pendenti). In
pratica, se si utilizza un foglio di calcolo non vi sono problemi, si traccia una colonna spese di cassa e una
di competenza (che confluirà nel riparto) in modo che siano evidenziate sia le partite definite che quelle
pendenti. Se, al contrario, si utilizza un software applicativo sussistono dei problemi. Intanto, i
programmi non permettono, normalmente, di gestire il rendiconto secondo il principio di cassa ed il
riparto secondo quello di competenza; tenuto conto che, normalmente, con il riparto, è necessario
acquisire i saldi anche relativi alle partite non definite, con gli applicativi anche il rendiconto vene,
pertanto, redatto per competenza, per cui, di fatto, fino a che le case produttrici non avranno risolto il
problema, sarà necessario, accanto al rendiconto e riparto digitale, redigerne uno manuale che evidenzi la
situazione di cassa.
Altre mansioni.
Viene previsto l’obbligo, per l’amministratore, di affiggere nel portone l’indicazione dei
propri dati; è da rilevare che, molti comuni, hanno già emanato dettagliate disposizioni
al riguardo, per cui sarà necessario osservare sia le disposizioni del comune che quelle
della nuova legge.
L’amministratore è tenuto a fare transitare ogni somma sul conto corrente del
condominio.
L’amministratore, alla cessazione dell’incarico, è tenuto a alla consegna di tutta la
documentazione in suo possesso e ad eseguire le attività urgenti, senza alcun compenso
ulteriore (e qui non si intende per quale motivo non spetti un compenso per le attività
urgenti).
Salvo che l’assemblea lo dispensi, l’amministratore è tenuto ad agire nei confronti dei
condomini morosi entro sei mesi dalla fine della gestione nella quale il credito è sorto
(quindi, se si tratta di rate per lavori straordinari, il termine semestrale decorre, in ogni
caso, dal termine della gestione ordinaria). E’ da rilevare che la nuova legge impone
all’amministratore di riferire, ai creditori del condominio, i nominativi dei condomini
morosi e, solo in caso di insolvenza degli stessi, i creditori potranno rifarsi su quelli in
regola. Questa norma che, a prima vista sembra di semplice applicazione, può dare
luogo a responsabilità dell’amministratore e, comunque, impone una gestione più
complessa dei pagamenti.
Ogni condomino che cede l’immobile deve comunicarlo all’amministratore,
consegnando copia autentica dell’atto; fino alla consegna continua ad essere
responsabile in solido con l’acquirente, per le spese.
Altri organi.
L’art. 1130 bis prevede che, con la maggioranza qualificata necessaria per la nomina
dell’amministratore, possa nominare un revisore dei conti la cui spesa sarà ripartita tra
tutti i condomini.
Viene reintrodotta la figura del “consigliere di condominio” (già presente nella legge del
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1935), anche se prevista (non obbligatoriamente) nei condomini con almeno dodici unità
immobiliari, con funzioni consultive e di controllo.
Anche qui, non si capisce cosa succeda che l’assemblea di un condominio con undici
unità nomini, comunque, i consiglieri di condominio.
L’assemblea
L’assemblea, nel condominio rappresenta l’organo decisionale; essendo un corpo
collegiale e riportando, pertanto, gli interessi convergenti di persone diverse, decide a
maggioranza e ciò rappresenta una notevole novità nel campo dei diritti reali dove,
solitamente, vige il principio del diritto assoluto, secondo il quale, nessuno può essere
costretto da altri soggetti, anche in virtù di una maggioranza, a subire limitazioni,
tranne l’ipotesi in cui non si sia egli stesso limitato a seguito di un negozio giuridico.
L’assemblea è composta da tutti i soggetti titolari di una proprietà esclusiva all’interno
del caseggiato. Convocazione L’assemblea viene obbligatoriamente convocata almeno
una volta all’anno (assemblea ordinaria) e, in via straordinaria, qualora lo ritenga
opportuno l’amministratore o qualora lo ritengano almeno due condomini che
rappresentino almeno un sesto della proprietà. Invero, esiste un procedimento secondo
il quale, qualora sussista la maggioranza di cui sopra, i condomini istanti si debbano
rivolgere all’amministratore, chiedendo la riunione straordinaria; solo qualora questi
non proceda alla convocazione entro dieci giorni, potranno provvedere direttamente alla
convocazione loro stessi. Se manca l’amministratore, ciascun condomino può convocare
direttamente sia l’assemblea ordinaria che straordinaria. E’ da rilevare che i termini
ordinaria e straordinaria riferiti all’assemblea non detengono alcuna relazione con gli
argomenti trattati, atteso che può avvenire che, a seguito di contestazioni, il bilancio
sia approvato in un’assemblea straordinaria e lavori di rilevante entità siano invece
decisi in occasione dell’assemblea ordinaria. L’avviso di convocazione, deve essere
inviato a tutti i condomini almeno cinque giorni prima del giorno di prima convocazione;
questo deve contenere la data, l’ora e il luogo della seduta e, in maniera comprensibile,
l’ordine del giorno di discussione. Esiste anche un quorum di validità della prima
convocazione ma, essendo troppo alto, normalmente la prima seduta viene fissata in un
giorno o ad un ora in cui nessuno certamente interverrà; tali sotterfugi, peraltro, sono
sempre stati in certo modo assecondati dalla giurisprudenza (si veda sull’orario di
convocazione Cass. 697 del 22/1/00) probabilmente in quanto conscia che il quorum in
prima convocazione non sarebbe quasi mai raggiunto; la seconda seduta non può essere
convocata oltre i dieci giorni o prima del trascorrere di un giorno (inteso nel senso del
calendario e non nel periodo delle 24 ore) dalla seduta andata deserta. La riunione Per
quanto concerne la regolarità della seduta, non vi sono regole che impongano una
disciplina circa la nomina del presidente e del segretario. La peculiarità del condominio,
che porta interessi proporzionali ai valori, ma reca altresì diritti di godimento
incomprimibili, ha reso necessaria l’adozione di un sistema di voto binario; le
approvazioni avvengono per soggetti e per quote di proprietà (millesimi) e, affinché la
delibera sia valida, devono sussistere entrambi i quorum. In effetti, nel nostro
ordinamento, rinveniamo un sistema di voto per teste o politico, adottato in sede
associativa, sindacale e istituzionale, dove ciascun votante ha diritto ad un solo voto,
equivalente a quello degli altri votanti, sulla base di un principio di eguaglianza e un
sistema invece puramente a quote rinvenibile nel diritto commerciale, nell’ambito delle
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società, dove la liquidità del capitale e le diverse entità patrimoniali degli interventi
renderebbe iniquo un sistema di voto a persona o uguale vertendosi comunque in campo
economico-patrimoniale. Nel condominio sussiste la necessità di distinguere le diverse
quote ma, d’altro canto, ciascun condomino ha il diritto di utilizzare il bene comune, a
prescindere dalla sua quota, per quella che è la sua destinazione; la destinazione del
bene, a differenza di quanto avviene nelle società, dove la liquidità del capitale non
impone alcun principio di garanzia per la quota minima rende necessario tenere conto
anche del soggetto quale persona. L’assemblea può decidere sulla base di una
maggioranza semplice, rappresentata da un terzo dei condomini che rappresenti un
terzo dei millesimi (in seconda convocazione, maggioranza oggi modificata dalla nuova
legge), una maggioranza qualificata, data dalla maggioranza degli intervenuti in
assemblea (anche a mezzo delega) che rappresenti almeno la metà dei millesimi (500 e
non 501) o qualificata speciale, data dalla maggioranza dei condomini che rappresenti
almeno i due terzi dei millesimi. Ciascuno può presenziare in assemblea personalmente
o a mezzo di persona delegata, ogni proprietà immobiliare può portare un solo
rappresentante anche se costituita da una comunione; chi è titolare di più proprietà
rappresenta un solo soggetto anche se titolare di più quote sommate tra di loro questo
in quanto la legge parli di condomino, intendendosi con questo il soggetto e non l’unità
di appartenenza. Qualora vi siano più titolarità incrociate (il che avviene, soprattutto
nei borghi) con titolarità soggettive e comunioni composte dalle stesse persone, si
dovrebbe intendere quale condomino il soggetto, se proprietario da solo e la comunione
se composta con le stesse quote. Ad esempio, il condomino A è proprietario di due
immobili e di un altro in comunione con sua sorella B, a sua volta proprietaria con il
marito C di altra unità immobiliare. In assemblea, A voterà per una testa per i due
immobili, A o B rappresenterà un altro condomino (comunione di A e B) e B o C
rappresenterà un altro condomino (comunione di B e C). Il c.c. stesso, nelle disposizioni
di attuazione, ammette che possa presenziare un solo rappresentante per ogni piano o
porzione di piano e che, in mancanza di accordo, sorteggi il presidente; è necessario,
pertanto, evitare di fare partecipare più rappresentanti dello stesso appartamento alla
stessa assemblea (ad esempio marito e moglie) in quanto qualche buontempone
potrebbe impugnare la delibera per vizio di formazione atteso che, al momento della
discussione, fossero presenti persone non autorizzate a deviare il corso di formazione
della volontà assembleare.
Le modifiche della legge
Come anticipato, la riforma è intervenuta sulle maggioranze, modificando la
maggioranza semplice e introducendo una nuova maggioranza.
Per raggiungere la maggioranza semplice, secondo le nuove disposizioni non è più
sufficiente un terzo dei condomini, intesi quali “teste”, ma è necessaria la maggioranza
degli intervenuti; il motivo è comprensibile e la soluzione condivisibile; con il quorum
precedente avrebbe potuto verificarsi l’ipotesi (più che altro “di scuola”) che fosse
approvato un argomento sorretto dal terzo dei condomini ma che trovasse contrario un
quorum maggiore.
Importante modifica è che l’amministratore non possa più ricevere deleghe in
nessun tipo di assemblea.
Un’altra disposizione prevede che, nei condomini con più di venti condòmini, le
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deleghe non possano essere concentrate in un unico rappresentante per oltre il quinto
dei millesimi; detta disposizione è stata dettata per evitare la cd. incetta di deleghe,
anche se negli stabili in località turistiche la noma può creare dei problemi visto che,
normalmente, i condomini vivono altrove e, normalmente, delegano altri condomini e,
soprattutto, l’amministratore.
Ma le novità maggiori riguardano i supercondomini; nei supercondomini con
almeno sessanta partecipanti, ogni stabile nomina, con la maggioranza qualificata
speciale (innovazioni), un proprio rappresentante che vota senza alcun limite o
condizione e riferisce all’amministratore che riferisce, a sua volta, in assemblea.
Il verbale
La giurisprudenza concordemente (da ultimo Cass. S. n. 11526 del 13/10/99) ritiene che
il verbale redatto in assemblea costituisca prova di ciò che è avvenuto, salva
dimostrazione del contrario. Tale fatto rende oltremodo difficile dimostrare eventuali
ipotesi di falso ideologico; tale fattispecie, riferita a documenti privati non integra reato
e diviene, in un processo civile, praticamente impossibile, per il condomino che voglia
impugnare il verbale per falso, dimostrare quanto assuma; egli stesso, infatti, è parte e
la sua parola non vale a suo favore, né vale quella del coniuge comproprietario, né
possono essere chiamati a deporre condomini in quanto parti in causa; l’unico rimedio,
nel caso in cui si sospetti possano avvenire fatti del genere, è quello di delegare una
persona fidata che non sia contitolare dell’immobile nel condominio e non sia anche lui
condomino; solo in questa ipotesi potrà testimoniare la falsità del verbale. La S.C.
ritiene l’annullabilità della delibera nel cui verbale non siano riportati i nomi dei votanti
e le singole quote, non essendo possibile, in questi casi, valutare eventuali contrasti di
interessi (Cass. 29/1/99 n. 810).
Le competenze
Quello dell’individuazione delle competenze è un problema di un certo peso, atteso che
la delibera presa fuori dalle competenze dell’assemblea è ancora, e a ragione,
considerata radicalmente nulla; la legge, peraltro, non dice quale sia il limite di
decisione dell’assemblea, per cui la relativa valutazione spetta all’interprete che, in
ultima battuta è il giudice, ma in prima è l’amministratore, il quale è tenuto ad
esercitare una cognitio nel momento in cui dovrà decidere se porre la delibera in
esecuzione o meno. La giurisprudenza da tempo si è orientata nel senso che le delibere
“tipiche” previste dal codice civile non rappresentino un elenco esaustivo ed esclusivo,
avendo l’assemblea, in generale, una sovranità per quanto riguarda la conduzione delle
questioni nello stabile; a questo punto, posto un limite dato dall’ordinaria
amministrazione delle parti comuni, intendendosi per ordinaria amministrazione anche i
lavori straordinari e tutto ciò che riguarda la manutenzione, l’unico modo per cercare di
segnare dei confini è quello di segnare territori esterni, nei quali l’assemblea non si può
spingere; in genere non rientra tra i poteri dell’assemblea:
1)-Deliberare su fatti che non abbiano per oggetto questioni relative a gestione di parti
comuni; Con quest’affermazione, non si intendono solo le spese che, seppure a rilevanza
collettiva, non ineriscano direttamente la conduzione dello stabile (necrologi, regali
ecc.) ma anche quelle materie site nella zona grigia che sta tra la parte comune in se e
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l’utilizzo soggettivo. Sintomatica è l’ipotesi del guardianaggio; di recente Tribunale di
Napoli (da ultimo 21/3/00) e Corte d’Appello relativa si sono scontrate sulla
condominialità della spesa relativa al guardianaggio. Da una parte, infatti, si sostiene
che il guardianaggio delle auto, avendo per oggetto beni esclusivi, deve essere gestito
dai singoli titolari dei mezzi, dall’altra si sostiene, al contrario che, avendo il
guardianaggio sostituito il portiere, rientra a buon diritto tra le materie di competenza
dell’assemblea.
2)-Deliberare su questioni relative a beni privati; Con quest’affermazione si sancisce che
l’assemblea non ha il potere di intervenire né limitare in alcun modo la proprietà
privata; il caso è quello dei limiti posti dai regolamenti alle destinazioni degli immobili,
in quanto solo un regolamento di genesi contrattuale potrà ad esempio disporre che gli
immobili dell’edificio non possano essere adibiti ad uso di ufficio, mentre l’assemblea
nulla potrà in merito. Devono inoltre ritenersi essere approvate al di fuori della
competenza dell’assemblea quelle spese che non vanno a favore di parti comuni ma
private (fatto salva l’ipotesi in cui l’obbligo provenga, ad esempio, dal dover risarcire un
danno cagionato da una parte condominiale). Devono inoltre ritenersi diritti esclusivi
anche le servitù dei singoli sulle parti comuni.
3)-Limitare i diritti dei singoli sulle parti comuni; Questo punto è il più complesso atteso
che richiama tutta la questione relativa alle innovazioni vietate. Non rientra, infatti, tra
i poteri dell’assemblea rendere inutilizzabile (o anche alienare o cedere gratuitamente,
anche temporaneamente, a terzi) una parte comune anche nei confronti di un solo
condomino intendendosi, con questo, che l’assemblea abbia il potere di, in una certa
misura, modificare la situazione dei luoghi, ma si debba fermare quando, a seguito della
modifica, al singolo o alla collettività possa pervenire un apprezzabile deprezzamento
della proprietà esclusiva; gli esempi sono diversi, dalla creazione di parcheggi sulle
rampe di accesso ai garages, all’installazione di ascensori con conseguente limitazione
della sezione delle scale e dei ballatoi e passaggi privati ecc.. Altro limite
dell’assemblea e quello della modifica dei criteri di ripartizione; l’assemblea non ha,
infatti, il potere di modificare i criteri legali o contrattuali di ripartizione delle spese.
Per quanto concerne i millesimi, originariamente solo l’unanimità dei condomini
poteva approvare le tabelle millesimale; in mancanza o per la modifica di quelle
esistenti, decideva il Tribunale, ma tutti i condomini dovevano essere evocati in
giudizio. Di recente, si sono pronunziate la Sezioni Unite, con la Sentenza n. 18477
del 09/08/2010, che hanno stabilito che, al fine del funzionamento della gestione del
condominio, le tabelle millesimali possono essere approvate anche a maggioranza
qualificata (art. 1136 2 c. C.C.) dall’assemblea.
La nuova legge è intervenuta modificando ancora il quadro. In primo luogo, per la
formazione di nuove tabelle (o per la modifica di quelle esistenti) occorre l’unanimità di
tutti i condòmini; la maggioranza qualificata è sufficiente in caso di errore o di modifica
dei rapporti per più di un quinto a favore o a carico anche di un solo condomino; per
queste modifiche, se non interviene l’assemblea, è sufficiente evocare in giudizio soo
l’amministratore, che è tenuto a darne notizia ai condomini, pena la sua revoca e
risarcimento dei danni.
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GLI ATTI
Gli atti degli organi del condominio sono quelli che hanno maggiore rilevanza in quanto
sono idonei a modificare il diritto, incidendo nella sfera soggettiva dei singoli condomini;
gli atti promanano dall’amministratore e dall’assemblea, dal punto di vista
dell’importanza, peraltro, in un’ottica interna, le delibere, ossia gli atti dell’assemblea,
sono più importanti in quanto contengono la volontà dei condomini, mentre gli atti
dell’amministratore hanno, per lo più, caratteristiche esecutive. Le delibere assembleari
La delibera dell’assemblea, in questo lavoro, verrà esaminata sotto l’aspetto del
provvedimento e sotto l’aspetto del procedimento. Sotto il primo profilo verrà descritta
la delibera in quanto tale, la sua efficacia, i suoi vizi; sotto il secondo profilo, per lo più,
si analizzerà la delibera nella sua formazione e, in definitiva, come deve, o come
dovrebbe, essere.
La delibera come provvedimento
Come si è avuto occasione di affermare, nella parte iniziale, il sistema maggioritario,
nei diritti reali, rappresenta un eccezione all’assolutezza del diritto di proprietà e degli
altri diritti minori;prima, infatti, dell’approvazione della legge del 1935, non era
possibile decidere a maggioranza per cui, nel caso si dovesse prendere una decisione e
anche un solo condomino non fosse stato d’accordo, gli altri avrebbero dovuto portare il
singolo in giudizio e dimostrare le proprie ragioni, al fine di obbligarlo a tenere il
comportamento effettivamente lecito. Con l’introduzione del principio maggioritario, il
diritto del singolo ad amministrare i propri beni (intendendosi tra questi anche le parti
comuni dell’edificio) viene affievolito ad una sorta di interesse legittimo, in quanto
l’amministrazione viene demandata ad un corpo collegiale, appunto l’assemblea, che
decide a maggioranza e nella quale il singolo interviene esclusivamente col proprio voto.
Con la delibera, a questo punto, si salta tutta la fase dell’istruttoria giudiziaria, per cui
ogni decisione che viene presa a maggioranza è vincolante per tutti i condomini e
sussiste presunzione di legittimità per cui il singolo che riterrà di essere stato leso nei
propri diritti sarà tenuto ad impugnare la delibera nanti l’Autorità Giudiziaria entro
trenta giorni dalla decisione (se presente) o dalla comunicazione (se assente). Nel caso,
ad esempio, si fosse resa necessaria l’esecuzione di un lavoro, prima della legge sul
condominio, anche un solo condomino avrebbe potuto inchiodare tutti gli altri, i quali si
sarebbero dovuti onerare di ricorrere al Giudice, che avrebbe verificato, tramite un
perito, la effettiva necessità dei lavori, la loro entità, la spesa, e la ripartizione; con
l’introduzione del principio maggioritario, decide la maggioranza quando i lavori sono
necessari, la spesa e la relativa ripartizione; viene cioè scavalcata tutta la fase
istruttoria giudiziaria; il ricorso all’Autorità Giudiziaria è necessario esclusivamente in
caso di mancato pagamento e allo scopo della richiesta del decreto ingiuntivo, emesso
peraltro sulla base della delibera e della ripartizione di spesa; in questo modo tutta
l’attività istruttoria è eliminata e devoluta all’assemblea. Il ricorso in impugnazione da
parte del dissenziente, peraltro, è ammissibile solo per motivi di legittimità (violazione
di legge, regolamento o eccesso di potere) ma non può incidere sul merito o sulla
discrezionalità della decisione dell’assemblea (Cass. Sent. 1165 del 11/2/99). I vizi della
delibera e i rimedi L’assunto secondo il quale la delibera debba venire impugnata entro
trenta giorni, in mancanza di che non si potrà più intervenire, non deve essere
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interpretata in maniera assoluta; è evidente che ritenere non più modificabile un atto
preso a maggioranza potrebbe dare luogo a gravi problemi, anche di ordine pubblico. La
giurisprudenza ha pertanto mutuato, dalla disciplina del contratto, gli istituti
dell’annullabilità e della nullità; di queste due tipologie di delibere, solo quelle definite
dalla giurisprudenza annullabili, sono sottoposte al termine dei trenta giorni, mentre
quelle definite nulle sono impugnabili da chiunque abbia interesse (anche se dapprima
favorevole come da Cass. n. 14037 del 14/12/99) e l’impugnazione non è sottoposta al
termine di decadenza di trenta giorni. L’impugnazione si propone nanti l’Autorità
Giudiziaria, a mezzo atto di citazione o ricorso (in giurisprudenza generalmente si
ammettono entrambi gli atti introduttivi) entro trenta giorni che decorrono dalla
decisione, se il condomino è presente e dissenziente (ma oggi si ammette che possa
impugnare anche il condomino astenuto, come da Sent. Cass. n. 129 del 9/1/99), se
assente dalla comunicazione della decisione (invio del verbale). Le conseguenze
dell’annullamento dell’atto, anche se l’azione è stata esperita da uno solo,sono estese a
tutti i condomini (Cass. Sent.n. 852 del 26/1/00). Per espressa disposizione di legge (art.
1137 c.c.) l’impugnazione non impedisce l’esecuzione della delibera a meno che
l’esecutività non sia provvisoriamente sospesa dall’Autorità Giudiziaria. Nell’ipotesi di
nullità radicale, al contrario, l’amministratore dovrà esimersi dal porre in esecuzione la
delibera anche qualora non venga impugnata, atteso che l’eventuale sentenza di
annullamento, avendo valore meramente dichiarativo e non costitutivo, ha efficacia ex
nunc (dal momento in cui la delibera è stata presa). Sull’amministratore incombe
pertanto l’onere di apprezzare quale delibera possa intendersi nulla o annullabile, ai fini
della sua esecuzione. In passato, la valutazione rivestiva una certa complessità, in
quanto la giurisprudenza non era uniforme, atteso che erano considerate, per lo più
nulle, le delibere prese in occasione di assemblee nelle quali un condomino non era
stato convocato, nelle quali una o più spese erano ripartite in parti uguali. Oggi la
Cassazione limita la nullità delle delibere, al più, a tre fattispecie: 1)- Se hanno oggetto
impossibile o illecito; 2)-Se l’oggetto non rientra nella competenza dell’assemblea 3)-Se
incidono su diritti individuali inviolabili per legge. Il primo punto sanziona la nullità delle
delibere prese in contrasto con norme imperative di ordine pubblico; la nullità non può
essere messa in discussione, in quanto l’illiceità colpisce interessi dello stato e non dei
privati, per cui si può parlare di nullità radicale assoluta. Sono norme imperative di
ordine pubblico quelle penali, i regolamenti amministrativi, le norme sulla sicurezza o
quelle fiscali; le delibere aventi oggetto impossibile rappresentano un “caso di scuola”
proprio in quanto la categoria è stata mutuata dal contratto, per cui non si rinviene in
giurisprudenza, il ricorrere di detta fattispecie. Del secondo ordine di nullità si è parlato
in occasione dell’esame dell’organo assemblea, in relazione alle sue competenze; il
terzo ordine rappresenta, per lo più anch’esso un caso di scuola. Le ultime due
pronunzie della S.C. richiamate, invero, stabiliscono i confini della nullità, dichiarando
la semplice annullabilità delle delibere che presentino irregolarità formali, comprese
due fattispecie che, in un passato recente, erano considerate ipotesi di nullità, ovvero la
mancata convocazione di un condomino e la deliberazione con maggioranze inferiori a
quelle di legge.
Le SS.UU. si sono pronunciate, con la sentenza n. 4421 del 27/02/2007, escludendo che il decreto
ingiuntivo emesso sulla base di un provvedimento viziato (delibera nulla o annullabile) possa validamente
essere opposto senza preventiva impugnazione della delibera; a detta della Corte,
infatti, il sistema legislativo previsto in materia condominiale contempla un’ipotesi speciale diretta
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ad una pronta gestione del caseggiato, a differenza di quanto avvenga negli altri casi ove può
essere impugnato il rapporto che ha dato origine all’obbligazione (ad esempio un contratto)
mediante opposizione del decreto ingiuntivo; in materia condominiale solo l’impugnazione e
l’annullamento della delibera può estinguere l’obbligazione e l’eventuale annullamento o
declaratoria di nullità del titolo assembleare fa decadere automaticamente il decreto ingiuntivo
ancorché non opposto.
Le modifiche della legge
Se l’impugnazione possa venire con atto di citazione o con ricorso è stato oggetto
di lungo dibattito, fino a che le Sezioni Unite si sono pronunciate a favore della citazione
ritenendo, peraltro, equipollente il ricorso.
La nuova legge ha stabilito che solo la citazione è idonea a interrompere il
termine mensile di decadenza, mentre il ricorso per la sospensiva deve essere sempre
seguito o accompagnato dalla citazione; il motivo è semplice; il legislatore ha voluto
escludere che, attraverso l’introduzione del ricorso (che è assimilabile ad una procedura
cautelare) il condomino dissenziente (e, oggi, anche astenuto) possa eludere l’obbligo di
preventivo tentativo di mediazione obbligatoria.
La delibera come procedimento
Con l’esame della delibera, sotto il profilo del procedimento (Gatto P. “la delibera
condominiale tra provvedimento e procedimento”, in Archivio delle Locazioni gennaio
2007 n. 1), si tende a sezionare l’atto nel suo sviluppo temporale, al fine di evitare
l’introduzione di elementi che possano comportare vizi; in precedenza si è detto che lo
studio della delibera come procedimento descrive la delibera non come è ma come deve
o dovrebbe essere, proprio ne senso della eliminazione di ogni occasione di illegittimità.
Nel suo sviluppo, la delibera si può dividere in tre fasi: atto introduttivo, l’istruttoria e
la decisione.
L’atto introduttivo
L’atto introduttivo della delibera è costituito dall’avviso di convocazione. L’avviso di
convocazione è l’atto promotore della delibera e, mentre dal punto di vista procedurale,
è dato proprio dall’atto di convocazione, dal punto di vista sostanziale è dato
dall’oggetto della decisione che è il punto all’ordine del giorno. Naturalmente, un unico
atto di convocazione potrà contenere diversi punti all’ordine del giorno, atti introduttivi
di altrettante delibere anche se, dal punto di vista della procedura degli atti, saranno
contenute in un’unica assemblea. L’atto introduttivo deve venire recapitato a tutti i
condomini. Sul fatto dell’obbligo di comunicazione a tutti i condomini vi è poca
chiarezza. Dal punto di vista dell’assemblea, questa non è valida se non si dà atto che
tutti i condomini sono stati convocati, dal punto di vista del procedimento di delibera
(sostanziale) coloro che si trovano in posizione di conflitto di interessi o di difetto di
interesse (e che pertanto non devono concorrere al voto) potrebbero anche non essere
chiamati; pensiamo all’ipotesi di controversia giudiziaria; chiamare il condomino
avversario del condominio comporterebbe la sua presenza nel momento in cui venissero
discusse questioni relative alla difesa e, quindi, riservate. Sull’obbligo di completezza
dell’ordine del giorno vi è una copiosa giurisprudenza della Cassazione che, per lo più,
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enuncia principi di diritto con minimo contenuto, da integrarsi da parte del Giudice di
merito. Così Cass. 11526/99: la completezza dell’ordine del giorno è demandato
all’apprezzamento del giudice di merito….Cass. 3634/00…è necessario che l’avviso di
convocazione elenchi, sia pure in nodo non analitico e minuzioso…si da far comprendere
i termini essenziali…l’accertamento della completezza è demandato all’apprezzamento
del giudice di merito…. Circa la modalità di convocazione, la giurisprudenza non
contempla formule sacramentali, in quanto la comunicazione può essere data con
qualsiasi mezzo idoneo a raggiungere lo scopo, anche con la dimostrazione (a mezzo
presunzione che il condomino controlli assiduamente la cassetta della posta)
dell’avvenuto inserimento dell’avviso nella stessa da parte dell’amministratore o di suo
delegato (Cass. S. 875 del 3/2/99). L’onere di provare il recapito spetta al condominio,
il quale non può dimostrare l’avvenuta consegna al destinatario, se il recapito è
avvenuto a mani di persona priva di stabile potere di rappresentanza (Cass. 2837 del
25/3/99); naturalmente, la consegna del portalettere a famigliare convivente, presso la
residenza del destinatario, è idonea allo scopo (anche in quanto così contempla la
normativa sulle poste) (Cass. 4352 del 29/4/99).
L’istruzione
L’istruzione è quella fase in cui vengono raccolte tutte le informazioni necessarie a
decidere circa i punti all’ordine del giorno. Vi è una fase extra assembleare, o
preparatoria, che può essere demandata all’amministratore, ai singoli condomini o ai
consiglieri, ed una fase, necessaria, di valutazione, all’interno dell’assemblea. Sono
normalmente documenti necessari all’istruttoria i preventivi, i consuntivi e riparti di
spesa, i capitolati di lavori, i preventivi delle ditte, i pareri legali e tecnici e, in genere,
tutti quegli atti idonei ad apportare informazioni utili alla decisione. La fase istruttoria,
anche se nessuno è portato a rilevarlo, è una fase critica, in quanto le più odiose
sperequazioni iniziano in un’istruttoria imperfetta e deviata e si perfezionano con una
decisione priva di motivazione. Si è detto in precedenza, che con la delibera
assembleare si è eliminata tutta la fase dell’istruttoria giudiziale; la legge, peraltro, non
impone un obbligo di motivazione che colleghi logicamente le risultanze istruttorie con
la decisione finale; tale fatto è grave, in quanto ogni atto (sia esso provvedimento
giudiziario che amministrativo) è obbligatoriamente motivato, mentre non è necessaria
alcuna motivazione nelle delibere assembleari, rendendo così, di fatto, impossibile,
procedere alla valutazione giudiziaria dell’esistenza di un eccesso di potere per
deviazione. La decisione La decisione è quella fase in cui, attraverso il voto, l’assemblea
sceglie la soluzione più opportuna al fine della risoluzione della questione posta
all’ordine del giorno. La giurisprudenza ha assunto un orientamento, secondo il quale,
sia annullabile quella delibera che non riporti i nomi dei votanti, i relativi millesimi e le
espressioni di voto (Cass. Sent. 810 del 29 gennaio 1999) e ciò in quanto non sia possibile
individuare il condomino astenuto e eventuali conflitti di interesse. Come già in
precedenza riferito, non sussiste alcun obbligo di motivazione, anche se sarebbe sempre
utile, in presenza di più soluzioni alternative, motivare quella prescelta, non solo al fine
di limitare il numero delle impugnazione ma, soprattutto, al fine di perseguire una linea
senz’altro più giusta e trasparente di quanto consenta la legge attualmente.
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L’esecuzione
L’esecuzione della delibera è atto che spetta all’amministratore, il quale si deve basare
su quanto riportato sul verbale, il quale assume il valore, per così dire, di titolo
esecutivo; per questo motivo è opportuno, che l’amministratore si astenga dal redigere
il verbale, anche se sottoscritto da altra persona (che assume la carica di segretario).
Le delibere tipiche
Il codice civile prende in considerazione una serie di competenze tipiche dell’assemblea
condominiale al fine precipuo di enunciare le maggioranze necessarie. L’elenco,
peraltro, non è esaustivo, per cui l’assemblea può normare per qualsiasi argomento
riguardo alla ordinaria amministrazione, nei limiti di cui si è già parlato sopra. Le
delibere tipiche più frequenti nella pratica sono le seguenti: Approvazione bilancio
consuntivo, preventivo e ripartizione: La maggioranza necessaria è quella ordinaria (un
terzo dei condomini/un terzo della proprietà). Nomina e revoca dell’amministratore e
suo compenso: Maggioranza qualificata (maggioranza degli intervenuti che rappresenti la
metà della proprietà). La maggioranza è necessaria sia in caso di nuova nomina che di
riconferma. Decisioni circa le liti attive e passive: Maggioranza qualificata; peraltro,
deve ritenersi applicabile alle sole materie che non siano di competenza esclusiva
dell’amministratore, per i quali casi non è necessaria alcuna maggioranza, in quanto l’A.
ha il dovere di agire o difendersi e tale attribuzione rappresenta un atto dovuto nei
confronti di ciascun condomino. Secondo certa giurisprudenza, nelle materie attribuite
all’amministratore dall’art. 1130, non è possibile, per il condomino dissenziente,
dissociarsi dalla lite, essendo tale controversia, necessaria alla conduzione legittima del
caseggiato. La dissociazione vale nelle materie di competenza assembleare (o comunque
non attribuite all’A.); in tali ipotesi, la dissociazione va notificata all’amministratore
entro trenta giorni dalla comunicazione della lite.
Le Sezioni Unite, con la Sentenza n. 18332 del 06/08/2010, hanno risolto il conflitto giurisprudenziale
sulla legittimazione in giudizio dell’amministratore; erano, infatti, presenti due orientamenti
giurisprudenziali: secondo l’orientamento maggioritario, l’amministratore era legittimato ad agire e
difendersi in giudizio senza preventivo assenso dell’assemblea in ogni caso, per cui l’eventuale
responsabilità rappresentava un fatto meramente interno, secondo l’orientamento minoritario, al
contrario, l’amministratore non era legittimato ad agire o resistere in giudizio senza preventivo assenso
dell’assemblea se non nelle materie espressamente indicate nell’art. 1130 c.c. .
Le SS.UU. hanno accolto l’orientamento minoritario per cui l’amministratore che agisce o si difende in
giudizio senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea condominiale, nelle materie escluse dall’art.
1130 c.c., non solo può rispondere, in caso di esito sfavorevole, per danni ai condòmini, ma la sua
costituzione in giudizio è inammissibile per difetto di legittimazione processuale (salvo ratifica
dell’assemblea, anche successiva).
Lavori di rilevante entità: Maggioranza qualificata. Per quanto riguarda il riconoscimento
di tali tipologie di lavori, la giurisprudenza ha avuto occasione di affermare (Cass.
810/99) che al fine di valutare se un lavoro possa definirsi di rilevante entità, il giudice
deve basare la propria valutazione, oltre che sulla spesa in sé, anche sul rapporto tra
questa e valore dell’edificio e sulla singola quota che il condomino, in media, è tenuto a
corrispondere. Innovazioni: Maggioranza qualificata speciale (maggioranza dei condomini
che rappresentino i due terzi della proprietà). Per innovazioni, riguardo alla parte
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dinamica, si intendono quelle opere che risultino migliorative e non conservative. La
giurisprudenza riconosce che l’innovazione, entro certi limiti, cambi la destinazione del
bene oggetto di intervento, per cui non qualsiasi intervento migliorativo è innovazione in
senso tecnico (Cass. Sent. N. 11936 del 23/10/99). Sussiste sempre il limite
dell’innovazione vietata che ricorre quando viene sottratto l’utilizzo di una parte
comune non compensato da un miglioramento del servizio. Destinazioni gravose e
voluttuarie (riguardo alla loro individuazione ci si deve basare sulla tipologia
dell’edificio, in relazione sia alla spesa che alla opportunità dell’opera)non possono
essere imposte al condomino dissenziente, il quale può rifiutare la contribuzione.
Regolamento di condominio: Maggioranza qualificata; il regolamento di cui all’art. 1138
c.c. è quello assembleare. Può normare soltanto su materia relative a: ripartizione delle
spese sulla base dei diritti effettivi dei singoli, amministrazione in genere (tempi di
convocazione,chiusura bilancio, ammissibilità di deleghe ecc.),modalità d’uso delle parti
comuni, decoro architettonico. Il regolamento cosiddetto contrattuale, è cosa diversa da
quello di cui all’art. 1138; è approvato all’unanimità dei condomini o viene accettato al
momento dell’acquisto dell’immobile, mediante menzione sull’atto di trasferimento
della proprietà; può normare su questioni relative a proprietà esclusive, sicché non sia
applica, a rigore, la disciplina condominiale, ma quella sul contratto. Il regolamento
contrattuale, oltre che alle materie di cui all’art. 1138 c.c (materie definite
regolamentari e modificabili a maggioranza qualificata, anche se contenute in
regolamento contrattuale) può contenere: norme che attribuiscono proprietà o diritti
reali a singoli o a gruppi di condomini, oppure norme che dispongono oneri reali o
obbligazioni propter rem a carico di singole unità immobiliari. La giurisprudenza ritiene
che neppure il regolamento contrattuale possa derogare agli articoli del codice civile
relativi alla costituzione dell’assemblea ed alle maggioranze relative alle delibere. Le
disposizioni non regolamentari di cui sopra, possono essere introdotte o modificate solo
all’unanimità.
Le modifiche della legge
In relazione alle innovazione, la nuova legge ha introdotto tre tipologie di innovazioni
per le quali è sufficiente la maggioranza qualificata (quella per i lavori straordinari e per
la nomina dell’amministratore per intenderci; le innovazioni speciali riguardano:
1) Opere ed interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità (nel caso di
obblighi di legge già in precedenza non era imposta la maggioranza qualificata
speciale);
2) opere ed interventi diretti ad eliminare le barriere architettoniche e per il
contenimento del consumo energetico, per i parcheggi e per la produzione di
energia alternativa (esistono, comunque, già leggi speciali soprattutto in
relazione al contenimento del consumo, per le barriere architettoniche e per i
parcheggi);
3) Installazione di impianti per la ricezione televisiva e similari.
In relazione a queste tipologie di innovazioni, l’amministratore che riceva la richiesta
anche da parte di un solo condomino, è tenuto a convocare l’assemblea entro trenta
giorni. Naturalmente, si consiglia l’istruzione delle procedure assembleare attraverso
l’assistenza di tecnici specializzati nelle diverse materie.
E’ da rilevare che la riforma prevede che, in caso di lavori di rilevanti entità e di innovazioni, l’assemblea debba precostituirsi un fondo pari all’entità dei lavori.La mancata osservanza può determinare l’annullabilità della delibera.

38) Atti dell’amministratore
Gli atti dell’amministratore hanno una rilevanza interna meno marcata di quelli dell’assemblea, atteso che l’Amministratore è carica per lo più esecutiva; possiamo distinguere tra gli atti dell’amministratore da definirsi autonomi da quelli da definirsi esecutivi.

Atti autonomi: gli atti autonomi dell’amministratore sono quelli presi non in esecuzione di una delibera (o quelli di cui al punto 4 dell’art. 1130, che sono, comunque, vincolati), ma quelli assunti a discrezione dell’amministratore stesso; senz’altro il potere più rilevante è quello di convocare l’assemblea straordinaria, che è un potere autonomo dell’amministratore; meno efficaci sono i poteri di ordinanza riconosciuti nel codice civile, atteso che l’ordine dell’amministratore non è, di fatto, eseguibile senza l’intervento di un giudice e che, comunque, incidendo, per lo più, su comportamenti di fatto, anche l’eventuale pronuncia di un magistrato potrebbe rimanere lettera morta.

Atti esecutivi: gli atti esecutivi, sono quelli obbligatori (atti di cui all’art. 1130) e, soprattutto, tra questi, quelli relativi alle esecuzioni di delibere assembleari. Le modalità di esecuzione di tali compiti e l’organizzazione dell’ufficio formeranno oggetto di un separato lavoro.