Affitti brevi, la stretta del Fisco potrebbe colpire 9mila host su Airbnb

Casa Condominio

La proposta di legge del Mibact potrebbe colpire quasi 9mila host attivi su Airbnb: chi immette sul mercato almeno quattro unità dovrà aprire una partita Iva e rinunciare alla cedolare secca.

Poco meno di 9mila. È questo il numero degli host – così Airbnb definisce chi affitta immobili sulla piattaforma – interessati dalla stretta sugli affitti brevi, proposta dal ministro dei Beni culturali e del Turismo, Dario Franceschini. La norma è stata inserita nella bozza di disegno di legge sul Turismo che, dopo gli ultimi passaggi tecnici, verrà presentata al Consiglio dei ministri il prossimo martedì 25 febbraio, per poi approdare in Parlamento: chi affitterà, sempre per meno di 30 giorni (locazioni turistiche), più di tre unità immobiliari sarà considerato come un imprenditore, anche se si avvale di intermediari oppure di portali telematici specializzati, come Airbnb, Booking oppure Homaway.

L’impatto del tetto sugli affitti brevi
«È apprezzabile – afferma Giacomo Trovato, country manager di Airbnb Italia – che il ministro voglia operare nel contesto di una riforma organica e partecipata come quello del disegno di legge sul turismo, anziché intervenire con provvedimenti spot». Per quantificare l’eventuale impatto di questa norma, Il Sole 24 Ore si è affidato a OnData, associazione impegnata nella diffusione della cultura degli open data, che raccoglie periodicamente i dati relativi agli immobili presenti su Airbnb. A fine gennaio sul portale erano caricate poco meno di 380mila soluzioni affittabili.

Ora, concentrandosi sugli immobili interamente affittabili (le stanze, infatti, sembrano escluse), il numero scende a circa 296mila unità. Prendendo in considerazione i codici identificativi degli host, si scopre che ce ne sono 8.880 che gestiscono almeno quattro appartamenti. È a loro che il ministro Franceschini pensa quando parla della necessità
di un giro di vite. «Il governo – ha dichiarato – sta lavorando a una norma che distingue chi affitta nello spirito originario di Airbnb, cioè solo il proprio appartamento, e chi invece maschera una normale attività d’impresa».

Nel mirino anche i property manager
Entrando più nello specifico, ci sono tre host che affittano oltre mille appartamenti (molto probabilmente agenzie o gestori professionali che utilizzano la piattaforma per raggiungere un target più ampio), altri quattro che ne gestiscono tra i 500 e i mille, 23 che ne hanno in portafoglio più di 200. Va detto, comunque, che nel database degli annunci Airbnb estratto da OnData i proprietari sono identificati a partire da un codice numerico che il portale assegna loro. Quello, per capirsi, che compare in fondo all’url se si clicca sul profilo di un host. Se poi una stessa famiglia ha più di un appartamento da affittare e apre più account per affittarli, questo i dati non permettono di capirlo. Allo stesso modo, Airbnb non pone limiti all’identità degli host: i titolari degli annunci possono essere privati cittadini, ma anche property manager, società specializzate o gestori che hanno già aperto una partita Iva.

Se il testo che verrà presentato dai Beni culturali dovesse passare il vaglio del Consiglio dei ministri e, poi, del Parlamento, i più colpiti saranno senza dubbio gli oltre 6mila host che gestiscono tra i 4 ed i 6 appartamenti sulla piattaforma. Per tutti loro scatterà la definizione di attività imprenditoriale, come da articolo 2082 del Codice civile, con tutti suoi effetti: necessaria apertura di una partita Iva e iscrizione al Registro delle imprese, dichiarazione del reddito d’impresa (non più fondiario) e conseguente tassazione dei ricavi fuori dalla cedolare secca.

Le reazioni di proprietari e albergatori
Le reazioni delle associazioni di categoria non si fanno attendere. «Le anticipazioni sulle intenzioni del Governo – afferma Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia – destano forti perplessità, sia sul piano dell’efficacia delle disposizioni ipotizzate, sia su quello della loro costituzionalità». Su questo punto le associazioni rilanciano il progetto di una comunicazione unica, a carico degli host, che consentirebbe di monitorare i flussi, snellendo gli adempimenti necessari. «Per definire l’attività imprenditoriale – aggiunge il notaio Fabio Diaferia, presidente della Prolocatur – il Codice civile parla di “professionalità” e “organizzazione”. Questi due requisiti non possono essere rappresentanti solo dal numero di appartamenti affittati, magari anche solo per poche settimane l’anno. Conta il numero di contratti stipulati oppure l’eventuale gestione dell’attività tramite realtà specializzate».

Sul fronte opposto, gli albergatori da anni sostengono che la diffusione delle piattaforme, come Airbnb, ha alimentato il mercato sommerso degli affitti brevi, trasformando i centri storici in “parchi turistici” da cui fuggono i residenti. Un sistema che, di fatto, genera «concorrenza sleale» nel settore del turismo, tra gestori professionali e non che accedono al regime fiscale agevolato. «Ad agosto 2019 – sottolinea Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi – gli host italiani con più di 3 appartamenti in vendita su Airbnb erano 11.081, per un totale di 115.284 appartamenti, pari al 25,2% dei 457.752 alloggi italiani presenti sul portale». Dati lievemente diversi rispetto a quelli estratti dal Sole 24 Ore, a causa del differente mese in cui è stata effettuata l’estrazione effettuata (in agosto si registra il picco dell’offerta per la stagione estiva).

I numeri sono simili a quelli diffusi dall’associazione Property managers Italia: su un totale di circa 300mila proprietari che promuovono online circa 430mila case, circa 220mila sono gestori diretti e 20/30mila sono property manager più o meno professionali. Tra questi ultimi la maggior parte gestitoscono meno di 20 appartamenti, mentre una cinquantina di società gestisce più di 100 appartamenti ciascuna. «Siamo i primi – afferma il fondatore e consigliere dell’associazione, Marco Celani, ceo di Italianway – a combattere i gestori occulti che operano fuori dalle regole. Fanno concorrenza sleale anche a noi operatori professionali». Celani è anche portavoce di Italia StartUp per il settore turismo, associazione che raccoglie circa 300 società che avviano imprese innovative nell’ecosistema del turismo (tante a supporto delle attività di property maanger) e lunedì 24 febbraio sarà al Mibact, proprio per discutere e proporre agli uffici del ministero soluzioni concrete per far fronte agli ostacoli del settore.

Le vecchie norme «dimenticate»

Nel frattempo, resta inattuato l’articolo 13-quater del Dl 34/2019 che lo scorso luglio aveva previsto l’istituzione presso il ministero delle Politiche agricole e del Turismo (competenza ora passata ai Beni culturali), di una «banca dati» delle strutture ricettive e degli immobili per locazioni brevi ai sensi dell’articolo 4 del Dl 50/2017, da identificare secondo un codice da utilizzare in ogni annuncio, pena sanzione fino a 5mila euro. Inattuato anche il trasferimento dei dati da AlloggiatiWeb all’agenzia delle Entrate.

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